Su Gela mi sono espresso in altri articoli di vari anni fa sul Corriere di Gela, analizzando alcune peculiarità cittadine che ne caratterizzano l’immagine e la percezione pubblica.
Ho sempre sostenuto che Gela è una città chiusa, diversamente dall’opinione di coloro che hanno partecipato al tema sul Corriere e che certamente hanno argomenti e percezioni che meritano di essere conosciute.
Rimango convinto di tale assunto, a condizione che si aggiunga qualche precisazione che delinei il perimetro della mia affermazione, rendendola, così, verificabile e valutabile.
on posso non concordare con quanto afferma Giuseppe Clementino sull’indole aperta dei gelesi che, presi individualmente, hanno una predisposizione ad aprirsi, conoscere, accogliere. Così come concordo sulla peculiare vitalità culturale e associativa di Gela rilevata dall’ arch. Francesco Salinitro.
Tuttavia nel valutare la Città occorre partire dal suo tessuto economico, perché è inconfutabile la regola che i processi economici, che sostengono una città, sono quelli che prevalgono nel caratterizzare i rapporti di forza. L’indole dei gelesi può anche essere storicamente predisposta ad aprirsi ma gli assetti cittadini sono fortemente condizionati dai suoi processi economici, in sintesi da come viene vissuta ed esercitata quella che può definirsi una “matrice di sussistenza”. A questa matrice di fatto si ispirano le varie logiche che spingono gruppi di opinione o semplici lobby a influenzare le scelte collettive, ovviamente il tutto unito a retaggi culturali che si sedimentano nel tempo.
Gela è una città maledettamente chiusa nelle sue logiche di sussistenza. Una città nata da una espansione demografica incontrollata e indotta dall’industria della conversione energetica e che ha vissuto una contaminazione “dosata” quando le masse di tecnici del nord-Italia giunsero per progettare e implementare uno dei più vasti petrolchimici meridionali. Una contaminazione che manteneva tuttavia dei perimetri di rispetto sia geografici (quartiere Macchitella) sia culturali (i luoghi di ritrovo extralavorativi sono stati quasi sempre delimitati: dopolavoro Agip, scuole paritetiche, persino luoghi di culto…).
Con i quasi 50 anni di industria petrolifera, che è stata la vera unica economia trainante della città, vari fattori selettivi hanno perimetrato l’accesso al mondo industriale. Si pensi al cosiddetto “cambio padre-figlio”, per i soli dipendenti del petrolchimico, durato a Gela fino all’anno 2011, ben oltre rispetto ad altri siti Eni ove la coscienza collettiva e la nuova etica imprenditoriale (Eni aveva adottato un codice etico societario) rendeva tale pratica eticamente non giustificabile. Gela è stato l’ultimo sito ad abolire questa pratica che appariva normale in tempi di espansione e di generosi utili aziendali. La popolazione ha sempre reputato normale tale pratica e spesso veniva perfino invocata ed auspicata. Era pertanto una istanza cittadina della quale non si riusciva a vedere il senso squisitamente elitario. E questo era solo uno dei segni che i perimetri non disturbavano la popolazione, anzi, era la popolazione stessa a chiedere di istituzionalizzarli.
Con la crisi dell’industria energetica da petrolio, la città entra in crisi, una crisi economica che ha toccato le famiglie e le casse municipali. Le royalties hanno subito un quasi dimezzamento per la decrescita della capacità estrattiva e le casse municipali non possono più contare su un ripianamento dei propri conti di esercizio e di investimento. Le logiche delle piccole economie collaterali come il commercio, l’embrionale turismo locale, la tradizionale agricoltura della piana e soprattutto il vasto indotto di piccole e medie ditte, che dal petrolchimico traevano commesse e occupazione, hanno reso ancor più visibili il loro approccio perimetrativo.
Il commercio locale, in primis, già uso a non accettare di buon grado iniziative commerciali che provenissero dall’esterno, ha irrigidito le proprie convinzioni creando un cordone di opinione e di influenza per cui oggi Gela non ospita neppure un centro commerciale di media-grande dimensione, pur avendo un bacino di consumatori di tutto rispetto. L’apporto di economie commerciali dall’esterno è sempre stato visto come una rapina verso il bacino di potenziali consumatori gelesi da parte di quelle realtà di economia familiare che vivono di piccolo commercio cittadino. L’insediamento complicato e travagliato del Mc Donald’s a Gela ne è un esempio. Non serve neanche dimostrarlo, ma queste logiche di perimetrazione sono tutt’oggi visibili ed operano con sorprendente efficacia.
Il mondo imprenditoriale dell’indotto è sempre stato ammalato di mono-committenza. In pochissimi hanno diversificato le attività rivolgendosi a committenti fuori dai confini di Gela e della Sicilia. Solo poche realtà imprenditoriali, che hanno scelto di competere su mercati internazionali, riescono a mantenere attivi e produttivi i propri business, per il resto il nanismo familistico è stata la causa di aziende morte prematuramente ed in maniera prevedibile. Il mondo lavorativo, per molte di loro, era e rimane Gela. Per cui il paradosso è che il perimetro funziona nei due sensi: non si accettano immissioni di imprenditoria dall’esterno e, nel contempo, non si valuta neppure una espansione verso l’esterno della città, aggregandosi e cooperando.
Il recente protocollo di intesa del 2014 ha nei coinsediamenti uno dei capisaldi del rilancio industriale di Gela. Dalle poche notizie filtrate sulla stampa (anche questo è un indicatore di chiusura) pare che le manifestazioni di interesse a coinsediarsi siano in maggioranza di ditte medio-piccole, con esigui capitali da investire. Mancano le multinazionali e i grossi gruppi industriali. Una chiusura che avrebbe dovuto scatenare, almeno tra le istituzioni a garanzia del protocollo, un tentativo di pubblicizzare e favorire l’ingresso a Gela di grossi gruppi industriali che, come è avvenuto con Eni, avrebbero successivamente favorito lo sviluppo di una imprenditoria indotta. Ed invece il piccolo e medio-piccolo, spesso privo di capitali, è il massimo dello sforzo di contaminazione che la città osa immaginare.
Sul versante turistico assistiamo ad un paradosso: comuni limitrofi con nessuna predisposizione alla cultura turistica hanno saputo favorire l’insediamento di villaggi turistici di investitori esterni ed internazionali, sfruttando aree marittime anche minimali. Hanno peraltro interconnesso la loro economia agricola con l’approvvigionamento alimentare di questi villaggi creando sinergie economiche. Gela, con la sua vasta area litoranea e marittima non ha neppure un caso di iniziativa imprenditoriale legata all’intrattenimento in villaggi attrezzati ed inseriti in circuiti più ampi dell’economia dello svago. Anche questa potenzialità, sovranamente sfruttabile nel comprensorio di Gela, è stata lasciata senza alcuna strategia. Quanti lidi (che sono una imprenditoria diffusa di piccola dimensione) sono gestiti da imprenditori non gelesi?
Bene, tutto questo è o no un segno di chiusura, a volte ermetica?
E che dire della più interessante infrastruttura che aprirebbe la città verso l’esterno e che invece non è percepita come tale? L’aeroporto di Comiso, che dista da Gela meno della metà del tempo tra Milano e l’aeroporto di Malpensa, è la più grande potenzialità di comunicazione di persone e merci con il resto dell’Italia e del mondo. Eppure dai gelesi e dalla municipalità è percepito come l’aeroporto di una sola città, Comiso, e non come l’aeroporto della Sicilia sud-orientale di cui Gela è la città prevalente in termini demografici. Una visione di lungo respiro avrebbe dovuto innescare una collaborazione concertata ed appassionata tra Gela, Comiso e altri comuni del comprensorio per rendere l’aeroporto supportato e resiliente anche alla competizione con l’aeroporto di Catania, che certo non vuole favorire altri scali. Questa mancata percezione di un bene comune, che peraltro supera l’annosa limitazione della comunicazione infrastrutturale viaria, non è neanche percepita. Anche questo cos’è se non un approccio di chiusura identitaria?
Se poi si vuole sconfinare nell’analisi della raccolta del consenso politico e della selezione della classe dirigente e di rappresentanza, non si può non notare che la base decisoria per candidare soggetti politici e rappresentanze è ancora su base familistica. Il soggetto candidabile deve avere il requisito di partire con una base elettorale assicurata da un congruo numero di voti reperiti prevalentemente tra la parentela. Ecco chiarito il famoso fenomeno, diffuso dal consenso familistico, che è stato ed è la base di partenza delle candidature amministrative locali e, mi si faccia aggiungere, della scarsa selezione qualitativa della rappresentanza. Anche questo è un atto di perimetrazione e di chiusura nell’ambito più squisitamente civile della vita della città.
Questo ed altro ancora consentono di affermare che, nonostante l’indole aperta dei gelesi, Gela rimane una città chiusa, tutto il contrario di una città aperta, aperta per necessità di sopravvivenza economica, aperta perché le fasi economiche richiedono forte contaminazione con l’esterno e forte cooperazione geografica.
A qualcun altro, non a me, il compito di trovare, nell’indole dei gelesi e delle sue dirigenze cittadine, le motivazioni e le cause di tale approccio perimetrativo. A me basta registrare gli effetti di questa folle corsa verso il calo demografico, l’isolamento identitario e la ripresa delle migrazioni di giovani gelesi.
Rimane sospeso il quesito su come Gela possa diventare una città che si apre all’esterno, che attrae ed esporta economia e iniziative. Un quesito che può ispirare un piano programmatico quasi elettoralistico. Un piano di azione cittadino di medio-lungo periodo. Ma questo è un altro capitolo a cui dedicare riflessioni ragionate, possibili, ma che richiedono una profonda disinibizione mentale rispetto a consolidate credenze e imperturbabili privilegi, che tali sono solo individualmente, ma che divengono freni per una collettività che potrebbe accrescere le proprie possibilità di vivere meglio e dare una speranza ai giovani. Perché un piano di azione passa, ne sono certo, dalla confutazione di paradigmi mentali che si ripetono ad ogni evento collettivo e che, ormai, sono privi della loro intrinseca verità. Il primo paradigma da confutare, in tal senso, è distinguere l’industria dal resto (commercio, agricoltura, turismo, servizi, etc.).
Usare cioè il termine “industria” tipicizzando l’intrapresa della trasformazione impiantistica. Mentre oggi tutto è industria, lo è l’agricoltura con le sue tecniche di produzione e di filiera, lo è il turismo di massa che prevede infrastrutture ampie e interconnesse, lo è il commercio che si orienta sempre più verso accentramento di beni e servizi. Tutto oggi è industria e già partire con una distinzione tra i paradigmi del “degrado” e del “bucolico” è un pregiudizio di partenza errato che falsa ogni ragionamento che si vuol innescare. Altri paradigmi andrebbero discussi e cambiati per progettare il futuro della città, ma questo è un altro capitolo di discussione che partiti e movimenti dovrebbero riprendere nel loro dibattito politico e civile che purtroppo non gode, oggi, di un livello accettabile di elaborazione e confronto.
“Gela città aperta” potrebbe essere, pertanto, un buon motto elettorale per chi voglia ambire a governare questa città, purché sappia che, per scardinare le decine di chiusure che questa città si porta dietro da decenni, ci vorrà una profonda riconversione del sentire collettivo, che passi attraverso la trasformazione delle lobby in comunità di proposta, ove la città diventi solo il punto di partenza di ogni iniziativa privata e collettiva. Rimane da ricordare, come ultimo monito, che, quando Gela commerciava con Chio, Rodi, i Fenici, l’antica Marsiglia e le città greche, proprio allora poteva ambire a rafforzare il suo ruolo ed il suo prestigio di città attiva ed aperta del Mediterraneo. Oggi non più o, speriamo, non ancora.