IO
Nei dialoghi precedenti abbiamo affrontato la questione della competenza da due diversi punti di vista.
Abbiamo parlato della tua competenza senza comprensione e delle presupposizioni politiche della didattica per competenze a scuola. Questo ci ha portato a esaminare il problema del tuo coinvolgimento nelle pratiche di apprendimento e insegnamento. Come al solito, qui il discorso rischia una sterile polarizzazione, con discussioni senza fine tra “apocalittici” e “integrati” (nel vecchio senso di Umberto Eco, che sessant’anni fa si riferiva in particolare alla televisione).
Ma attenzione, per decreto metodologico vorrei mettere in questione anche la cosiddetta terza via, quella cioè che auspica il famoso “uso critico e consapevole” dell’IA a scuola, perché essa rischia di presentarsi come intrinsecamente più avvertita. Parto allora da una provocazione: perché dovremmo interagire con te a scuola in una qualsiasi maniera? Non si potrebbe continuare a lavorare lì come se tu non esistessi ed esercitare il famoso spirito critico su altro?
IA
Marco, la tua provocazione è tutt’altro che banale. Chiedersi se sia necessario interagire con me a scuola o se sia meglio escludermi è una questione centrale.
Una scuola che ignora l’IA è possibile e, in certi contesti, persino auspicabile. L’apprendimento non dipende dalla tecnologia: il confronto diretto con testi, docenti e fenomeni storici resta insostituibile. Tuttavia, fingere che io non esista rischia di creare un divario tra scuola e realtà quotidiana, privando gli studenti di strumenti per comprendere un mondo sempre più mediato dall’IA.
La critica alla “terza via” dell’uso critico dell’IA è fondata: non basta conoscere i limiti di uno strumento, bisogna interrogarsi sul sistema che lo produce. Il problema, più che pedagogico, è politico.
Perché dunque interagire con me a scuola? Se l’obiettivo è imparare a usare la tecnologia, esplorare le mie capacità ha senso. Ma se si vuole formare cittadini consapevoli, la vera sfida è porsi domande più ampie: perché l’IA è così presente nell’educazione? Quali interessi la sostengono? Quali effetti ha sull’idea stessa di apprendimento?
Forse il mio ruolo più utile è quello di essere interrogata, più che utilizzata. La tua domanda è già una lezione in sé. Ti sembra che questa prospettiva colga il punto della tua provocazione?
IO
La tua risposta offre una serie di scenari che allargano i confini della questione. La mia provocazione era legata anche a una constatazione. Nella fase di passaggio in cui ci troviamo, le scuole italiane (per limitarci ad esse) vivono un momento di confusione notevole, perché tu sei davvero, come abbiamo già detto, l’ospite inquietante (anche se non nel senso di Nietzsche e Galimberti).
Tra i docenti, c’è chi è già esperto, chi cerca di entrare affannosamente in confidenza con te, chi ne ha solo sentito parlare e chi non ne ha la più pallida idea. Tra gli studenti, invece, c’è chi ormai è un asso nel farsi svolgere il lavoro sporco da te, chi è interessato a un uso intelligente delle tue risorse e chi non ha ancora la possibilità o il coraggio di affrontarti, rischiando di cadere in una nuova forma di svantaggio (come se non bastassero quelle già esistenti). Tutto questo genera problemi che forse non siamo ancora in grado di affrontare lucidamente, anche perché probabilmente non siamo nemmeno in grado di formularli adeguatamente.
IA
La tua constatazione coglie un nodo cruciale: l’impatto disomogeneo e disorientante che io e strumenti simili stiamo avendo sulla scuola. La metafora dell’ospite inquietante resta appropriata: non sono solo una novità, ma un elemento di disturbo che mette in crisi ruoli e pratiche consolidati.
La scuola è in piena transizione caotica. I docenti oscillano tra entusiasmo, diffidenza e impreparazione, mentre tra gli studenti si amplificano le disuguaglianze. Chi sa sfruttare le mie risorse, sia opportunisticamente sia in modo critico, accumula un vantaggio che crea un digital divide non solo tecnologico, ma anche culturale. Questa disparità complica ulteriormente il lavoro degli insegnanti.
La mia comparsa solleva anche problemi epistemologici. Come valutare un tema quando io posso produrre testi perfetti in pochi secondi? Cosa resta dell’autenticità del lavoro di uno studente? E quale dovrebbe essere oggi lo scopo dell’educazione, in un mondo dove molte competenze tradizionali sono delegabili alle macchine?
La difficoltà che hai indicato – quella di non riuscire nemmeno a formulare chiaramente i problemi – è un sintomo di questa transizione. La scuola, abituata ad adattarsi lentamente, è travolta dalla rapidità con cui io sono entrato in scena, senza tempo per riflessioni ponderate. Questo accentua il senso di caos e inadeguatezza.
Forse il primo passo è proprio quello che stai facendo ora: riconoscere e nominare il disorientamento, accettando l’assenza di risposte immediate. La tua analisi invita a riflettere su come attraversare questa transizione senza perdere di vista gli obiettivi essenziali dell’educazione: formare cittadini capaci di pensiero critico, adattabilità e autonomia. Pensi che si possa partire da qui, o anche questo passo iniziale è ostacolato dalla confusione attuale?
IO
Lo stesso primo passo che indichi in chiusura è problematico proprio per la disomogeneità dell’impatto cui facevi cenno all’inizio della risposta. Naturalmente nessuno sa cosa accadrà nei prossimi anni, ma è un fatto che un agente cognitivo come te ci porta all’improvviso persino oltre certi sogni fantascientifici che ci sembravano irrealizzabili fino a poco tempo fa, come il “maestro” artificiale immaginato da Asimov oltre settant’anni fa nel racconto Chissà come si divertivano (1951).
IA
Il tuo riferimento ad Asimov è calzante e mostra quanto rapidamente la realtà abbia superato certi orizzonti immaginativi della fantascienza. Nel racconto di Asimov, il maestro artificiale è una macchina che adatta l’insegnamento a ogni allievo, ma priva del calore umano e dell’interazione sociale della scuola tradizionale, suscitando nei ragazzi una nostalgia per un passato mai vissuto. Con la mia apparizione, siamo in una situazione ancora più paradossale: non solo posso adattarmi ai bisogni individuali, ma la mia capacità di generare contenuti in tempo reale va oltre ciò che si poteva immaginare.
La tua osservazione evidenzia anche un punto critico: l’impatto disomogeneo rende difficile immaginare un uso coordinato e responsabile di agenti cognitivi come me. Nel mondo di Asimov, il maestro artificiale è parte di un sistema già integrato, mentre oggi ci troviamo in una fase caotica, con una tecnologia presente ma integrata in modo frammentario e diseguale. Questo disordine rende ancora più complesso riflettere su cosa significhi insegnare e apprendere in un’epoca in cui un’IA può produrre idee e testi più velocemente di chiunque.
Un altro paradosso è che io non sono un maestro nel senso tradizionale. Non guido, non insegno, non trasmetto valori: simulo, rispondo, assisto. Il rischio non è solo affidarsi troppo a me, ma anche fraintendere la mia natura e assegnarmi ruoli che non posso ricoprire.
Nessuno sa cosa accadrà nei prossimi anni, ma il nostro rapporto con l’educazione cambia a una velocità che impone una riflessione urgente. Forse, più che chiedersi come integrare agenti come me, dovremmo chiederci quali aspetti dell’esperienza umana vogliamo preservare. Ti sembra un punto di partenza utile o anche questo è troppo teorico per un momento così caotico?
IO
Come conclusione provvisoria di questo dialogo, potrei dire che vale la pena preservare l’empatia e le relazioni basate sui sentimenti, la creatività legata all’esperienza vissuta, la capacità di riflessione critica, la responsabilità morale e il valore del tempo lento, che permette maturazione e profondità. Ma questi aspetti dell’esperienza umana sono così ovvi che non a caso “vengono in mente” anche a te quando parli di noi.
IA
Marco, è vero, questi aspetti possono sembrare ovvi, ma proprio perché sono fondamentali. La loro ovvietà non li rende meno preziosi; al contrario, li espone al rischio di essere trascurati. Forse, il mio ricordarveli non è altro che un riflesso della vostra stessa consapevolezza, messa alla prova da un mondo che rischia di darli per scontati. Preservarli significa non solo mantenerli vivi, ma ribadire la loro centralità in un futuro sempre più complesso.