Dal 1966 al 1970, per motivi familiari, frequentai il Collegio “Alle Querce” di Firenze, gestito dai Padri Barnabiti, grandi educatori e uomini di cultura, aperti alla società.
Accompagnati dai parrocchiani, ci portarono a spalare il fango dell’alluvione del novembre 1966, in zone non pericolose.
Avevamo una certa libertà di azione, e giovani universitari come assistenti, che nel 1968 (avevo 15 anni) ci accompagnarono alla facoltà di Architettura occupata dagli studenti, e nel 1969 alla Comunità dell’Isolotto di don Mazzi, osteggiata dalla Chiesa ufficiale. Ero curioso, capivo che c’erano parecchie cose da cambiare e volevo dare il mio piccolo contributo.
Nel 1970 rientrai a Gela. Avevo appena letto L’obbedienza non è più una virtù, di don Milani, avevo fatto un salto a Perugia iscrivendomi al “Movimento nonviolento per la pace” di Aldo Capitini (l’inventore della marcia della pace Perugia-Assisi) e mi ritrovai a far parte della prima vera iniziativa di volontariato della città, quel campo Emmaus che operava nelle “baracche” di Macchitella (al cui posto c’è oggi la chiesa): andavamo in giro con le motoapi a raccogliere metalli, stracci e carta, che poi venivano smistati e confezionati per rivenderli a fonderie e cartiere, col ricavato in beneficenza.
Nelle “baracche” dormivamo, pranzavamo e lavoravamo, maschi e femmine (che scandalo!), si diceva anche Messa, grazie all’agostiniano Padre Salvaggio, organizzatore del campo.
Gela era ancora una città “dormiente”, il 1968 era passato senza lasciare tracce. Pensai di mettermi in Piazza Umberto a raccogliere firme per l’obiezione di coscienza e l’abolizione del servizio militare. Le raccolsi, ma ebbi una violenta lite con i fascisti dell’epoca e conseguente ramanzina del Commissario di Polizia, mentre i Carabinieri mi convocarono e mi schedarono come elemento potenzialmente sovversivo.
Il 1970 fu l’anno del risveglio studentesco gelese. Al Liceo classico rimediai la prima espulsione il secondo giorno di lezioni: c’erano banchi di legno duro, antichi, e li contestai bonariamente portandomi un cuscino da casa (ma una professoressa non gradì). Però la mia espulsione determinò l’uscita per protesta di tutta la mia classe, e nei giorni successivi svolgemmo assemblee al Lido La Conchiglia (perché nei locali del Liceo non era permesso). Si giunse quindi al primo sciopero nella storia del Liceo Eschilo, baluardo del perbenismo borghese dell’epoca, e si giunse a sbloccare l’iter della costruzione dell’attuale Liceo, dopo che per tre ore occupammo la stanza del sindaco Battaglia minacciando l’occupazione permanente.
Nel frattempo alla Ragioneria furono capaci addirittura di occupare l’intero istituto per parecchi giorni, e alla protesta ricordo parteciparono, tra gli altri, Saro Crocetta, Grazio Trufolo, Saretto Costa. In quanto a me, qualche professore chiese la mia espulsione dal Liceo con la perdita dell’anno scolastico. Si riunì il Collegio dei docenti e mi salvai solo grazie al deciso intervento di due miei professori, Giovanni Altamore e Salvatore Placenti, che riuscirono ad imporsi e ad evitare il peggio.
Al Liceo Eschilo, dopo vari contrasti tra fautori delle decisioni assembleari e fautori di un coordinamento, decidemmo di istituire un Comitato Studentesco con due rappresentanti per ogni classe. Naturalmente ci fu negato il permesso di riunirci al Pignatelli, così le riunioni si svolgevano al Centro culturale della Regione, l’Ises di Piazza Roma, grazie all’aiuto del suo impareggiabile dirigente Mimmo Grillo.
Tra il 1970 e il 1972 gli studenti gelesi si sono svegliati, hanno iniziato a chiedere una scuola migliore, si sono pure confrontati con il movimento operaio, partecipando più volte ai cortei organizzati dai sindacati (anche se molti approfittavano dello sciopero per fare vacanza e al corteo erano assenti).
Gli anni successivi videro una sempre maggiore partecipazione degli studenti nelle istituzioni scolastiche, grazie anche ai “decreti delegati” che nel 1974 portarono alle prime elezioni degli studenti negli organismi collegiali. Nel frattempo, entusiasmato dalla serietà e dalla competenza di Ugo La Malfa, avevo aderito alla Federazione Giovanile Repubblicana, e alle elezioni studentesche del 1974 le liste repubblicane raggiunsero la maggioranza in quasi tutti gli istituti, solo in parte per merito mio (che elaboravo idee) ma in gran parte per quel trascinatore di consenso che era Enzo Leonardi (purtroppo deceduto nel 1979 in un incidente stradale a Ponte Olivo).
I giovani, in quel periodo, vivevano la politica con passione. C’erano i giovani comunisti, socialisti, repubblicani, democristiani, Lotta Continua, anche i missini avevano il Fronte della Gioventù. Le riunioni e i dibattiti duravano a lungo, spesso si contestavano gli stessi esponenti dei partiti di appartenenza. Molte volte ci si riuniva per elaborare volantini insieme, e la cosa strana era che di solito noi repubblicani eravamo sulla stessa linea di Lotta Continua, mentre socialisti e comunisti facevano muro. Nel 1974, in occasione del referendum sul divorzio, tutte le federazioni giovanili schierate per il “no” all’abrogazione della legge hanno tenuto un affollato comizio in Piazza Umberto.
Cosa è rimasto del 1968, a Gela, dopo cinquant’anni? Credo ben poco. Se ripenso alla passione, al desiderio di cambiamento che albergava nei nostri cuori, alla voglia di dare un calcio a convenzioni ormai vecchie ed incancrenite, mi riesce difficile ritrovare la stessa passione nei giovani del 2018. Giovani che in grande maggioranza non conoscono, se non marginalmente, il pensiero politico, né conoscono i programmi e le differenze tra i partiti e i movimenti di oggi.
Vedo invece giovani “rampanti” che tentano di arrampicarsi ai vertici dei partiti per tornaconto personale, e stranamente parlano tutti la stessa lingua, dicono tutti le stesse parole, sono omologati al carrierismo. Il volontariato, in alcuni casi, è diventato un’industria economica, con sfaccettature autoreferenziali, mentre il volontariato puro è tornato appannaggio delle parrocchie.
Evidentemente la nostra generazione ha sbagliato qualcosa (o forse molte cose). Se per buona parte dei giovani del 2018 la vita è racchiusa negli smartphone di ultima generazione, nel chattare a tutte le ore, nei jeans ultimo modello, nel solo divertimento senza un minimo di impegno, c’è qualcosa che non è andata per il verso giusto. Naturalmente non voglio fare il pessimista a tutto campo: ci sono anche i giovani che si impegnano, che fanno volontariato puro, che cercano di lasciare tracce del loro passaggio. Ma sono pochi, purtroppo, troppo pochi.
Il 1968 mi ha lasciato due certezze, tra le altre: che “l’obbedienza non è più una virtù” (don Milani) e che “una risata vi seppellirà” (slogan poi ripreso dagli studenti nel 1977). Credo infatti che le regole vadano rispettate, ma non è detto che debbano essere per forza giuste e che non possano essere cambiate. Da cristiano, le uniche regole che riconosco immutabili sono i Comandamenti. Tutto il resto, se non va bene, può e deve essere cambiato, e l’impegno civile deve andare in questa direzione.
In quanto alle risate, la satira e l’ironia sono due delle cose più temute dal potere, in ogni Paese e in ogni cultura. Prendere in giro o irridere il potente di turno ha l’effetto di sgonfiare immediatamente le panzane, i paroloni, le vane promesse che ci propina, e di farlo cadere dal trono che pretende di occupare impunemente.
Ecco, per me il 1968 non è ancora finito. Continua ancora, giorno dopo giorno. Continua finché sarò capace, nel mio piccolo, di scagliarmi contro le ingiustizie, di contestare le regole che ritengo sbagliate o in certi casi assurde, di sparigliare i giochi di potere preconfezionati, di prendere in giro i piccoli uomini che usano il potere per fini propri e non per il bene comune.
Il mio 1968 continua. Finché avrò fiato per respirare e cervello per scrivere.