Notte del 17 Gennaio del 1973 scorso: dal Museo archeologico di Gela scompare il prezioso medagliere in esso custodito.
Si tratta di circa 600 pezzi, una collezione forse unica di monete greco-sicule e romane vanto del Museo e dell’intero patrimonio archeologico siciliano. Il suo valore è stimato in oltre un miliardo di lire. La caccia ai ladri scatta immediatamente per impedire che la refurtiva varchi la frontiera e si disperda nell’intricato giro internazionale dei ricettatori, degli antiquari privi di scrupoli, dei collezionisti isolati.
Ma è proprio all’estero, e precisamente a Lugano, in Svizzera, che a metà maggio la gendarmeria elvetica mette le mani su due gelesi segnalati dalla polizia italiana e li trova in possesso di 150 monete appartenenti alla collezione trafugata. E le altre 450? Nessuna traccia, né allora né in seguito. Le squadre specializzate delle polizie di mezza Europa cercano ancora i tre quarti del medagliere mancanti all’appello. Ma non è il caso di andare tanto lontano: il resto della collezione si trova in Sicilia, nelle mani di persone che col furto di Gela non hanno nulla a che vedere. Mani “pulite”, mani “onoratissime”, ben difficilmente individuabili.
Questo servizio è la prova di quanto diciamo. Abbiamo potuto vedere le monete rubate e ci è stato perfino consentito di fotografarle in un rifugio segreto, dove siamo stati condotti con gli occhi bendati. Tutto si è svolto in modo romanzesco, nella più autentica cornice della tradizione mafiosa.
Torniamo alla notte del 17 gennaio, inizio di una delle più avventurose vicende nella storia dei furti ai danni del patrimonio artistico italiano. Quattro uomini armati e mascherati penetrano nel Museo archeologico di Gela – un edificio a due piani situato alla periferia est dell’abitato – passando per un lucernario in modo da evitare l’entrata in funzione del dispositivo elettrico d’allarme. Si parlerà di tecnica rocambolesca alla maniera di Rififi. Secondo la versione ufficiale, i due custodi presenti in quel momento nel Museo, Francesco Monachello e Giuseppe Di Dio, non hanno nemmeno il tempo di gridare o di mettere mano alle loro pistole. Colti di sorpresa, vengono costretti sotto la minaccia delle armi ad aprire la camera blindata dove è conservato il medagliere; poi, legati e imbavagliati, finiscono essi stessi nella camera blindata, al posto delle monete.
Il medagliere prende il volo. I suoi 600 pezzi sono quasi tutti rarissimi, coniati prevalentemente tra il VI e il IV secolo avanti Cristo dalle città della Magna Grecia e da Atene. Una parte della collezione è composta da monete d’oro romane, datate dal 408 al 457 dopo Cristo.
Chi ha commesso il furto: ladri per così dire “indipendenti”, oppure al servizio di qualche mittente? In ogni caso, hanno agito da soli? Ci si domanda a cosa serva una camera blindata quando le sue chiavi si trovano a portata di mano, nelle tasche dei custodi. Trascuratezza, negligenza o qualcosa di peggio? La risposta a quest’ultimo interrogativo vedrà data più tardi dagli inquirenti con un procedimento a carico dei due guardiani, confermando così il sospetto che i trafugatori abbiano agito valendosi di complicità attive e passive all’interno del Museo.
La determinazione dei ladri e il genere della refurtiva – di enorme valore e di difficilissimo smercio – fanno subito pensare a un gruppo di “professionisti” operanti su commissione. E le indagini si dirigono verso l’intero mondo che gravita intorno alle opere d’arte. Carabinieri, polizia, guardia di Finanza cominciano a passare al setaccio ricettatori, numismatici, antiquari. Altrettanto fanno alcune polizie straniere attraverso le sezioni Interpol. Perquisizioni, pedinamenti, controlli e interrogatori si susseguono dalla Sicilia al Piemonte, dalla Svizzera alla Germania. Ma le monete non saltano fuori. Tutti coloro che in qualche misura hanno la coda di paglia si mettono in allarme.
Pesci piccoli e grossi del mercato archeologico clandestino, commercianti di sicura reputazione (o quantomeno ritenuta tale), falsari internazionali, modesti “ tombaroli” e perfino grosse organizzazioni contrabbandiere di tipo mafioso si trovano coinvolti nella rete dei sospetti. Per questo ambiente, composto di centinaia e centinaia di persone, la sparizione del medagliere di Gela diventa un incubo. Le monete trafugate innescano infatti una reazione a catena di controlli e perquisizioni estremamente pericolosa. Anche il personale delle Soprintendenze alle opere d’arte subisce le conseguenze della “grana”: nei musei si instaura un clima di rigore, disservizi e negligenze vengono a galla nel solito gioco a scaricabarile.
Da questo punto di vista, gli effetti del colpo di Gela sono positivi. Decine di fermi e arresti, centinaia di pezzi archeologici –alcuni dei quali di grande valore- scoperti o recuperati. Ma l’essenziale è trovare il medagliere. La caccia continua senza soste, in Italia e all’estero.
Finalmente, a metà maggio, si pensa di aver chiuso la partita. A Lugano la polizia ticinese ferma Angelo Scollo e Michele Giuffrida, entrambi di Gela, che hanno addosso 150 monete. Nei giorni seguenti, il professor De Miro, soprintendente alle opere d’arte per le province di Agrigento, Caltanissetta e Enna, le riconosce come appartenenti alla collezione rubata. E’ già un buon risultato, anche perché l’arresto di Scollo e Giuffrida fa cadere l’ipotesi che il furto sia stato perpetrato su commissione.
I due, infatti, si sono lasciati pescare mentre tentavano maldestramente, quasi alla luce del sole, di smerciare la loro parte del bottino: e ciò denuncia chiaramente il carattere “improvvisato” del furto. I ladri non conoscono le regole più elementari del mercato delle opere d’arte rubate e agiscono senza i necessari agganci nazionali e internazionali nel mondo della grande ricettazione che ha le sue capitali mondiali a Basilea e a Francoforte.
La convinzione che si possa rintracciare il resto della refurtiva appare a questo punto più che giustificata. Invece le cose vanno in tutt’altro modo. Spaventati dall’arresto di Scollo e Giuffrida, i loro inesperti complici si preoccupano di liberarsi al più presto delle scottanti monete rimaste in loro possesso. Chi accorre in loro aiuto è un’organizzazione di «professionisti” che rileva per una cifra irrisoria – non più di trenta milioni, pare – la parte della collezione non recuperata in Svizzera.
Due o tre giorni dopo, la pista luganese consente alla polizia italiana di operare il terzo arresto nella persona di Antonino Di Mauro, 33 anni, anch’egli di Gela, facoltoso albergatore e titolare di una ditta di autotrasporti. Ora ci si aspettano nuovi mandati di cattura, e forse presto si conosceranno i nomi di tutte le persone implicate nel colpo di Gela. Ma il cerchio che si è chiuso intorno alla banda non è servito a recuperare il resto della collezione, e probabilmente non servirà mai. Ma almeno sappiamo che il medagliere mancante si trova in Sicilia, in mani insospettabili.
Dal punto in cui possiamo raccontarla, la storia della nostra scoperta ha inizio una notte alle 2 con un appuntamento nei pressi di una piccola trattoria sulla statale Sciocca-Porto Empedocle. Siamo in due, il fotografo Franco Chiazzese ed io. Dopo un’attesa di circa venti minuti veniamo accostati da una Giulia nera, che si affianca alla nostra auto impedendoci di vederne la targa. Un solo uomo a bordo: giaccone di pelle nera col bavero alzato, il tipico berretto siciliano calcato sulla fronte, occhiali scuri. Ci fa cenno di salire sulla sua macchina.
Proseguiamo in silenzio per un breve tratto, l’auto si ferma, l’uomo scende e s’allontana d’una ventina di passi, poi fischia tre o quattro volte in direzione della campagna. Pochi attimi dopo, due figure emergono dall’oscurità, i volti resi irriconoscibili da calze femminili e dai berretti calati sugli occhi. Scendiamo. Ci perquisiscono, ci bendano gli occhi con un nastro di cotone idrofilo fissato col cerotto. Avvertiamo una sgradevole sensazione di impotenza. Appena risaliti sull’auto, questa parte a velocità sostenuta. All’asfalto si alternano tratti in terra battuta. A un certo momento ci fanno abbassare repentinamente la testa, forse perché c’è una pattuglia della polizia.
Viaggiamo da una quarantina di minuti quando la macchina si ferma. Sempre bendati, veniamo condotti lungo una scarpata in lieve pendenza. Poi due gradini, e siamo in un ambiente chiuso. Sentiamo sotto i piedi paglia e cocci di tegoli. Passano alcuni minuti, finchè ci accorgiamo della presenza di un nuovo arrivato: e finalmente ci tolgono la benda mentre viene acceso un lume a gas.
La stanza è piccola, non più di quattro metri per tre, e sembra una stalla. In un angolo, sopra alcune pietre lisce che forse sono servite per accendere un fuoco e cucinare qualcosa, è disteso un panno. Sopra il panno, ecco le monete di Gela. Ce ne sono una cinquantina. Due uomini ci controllano: uno, piccolo e magro, imbraccia un mitra, l’altro sta sulla soglia della porta riempiendone tutto il vano con la sua massiccia corporatura. Quest’ultimo tiene in mano una torcia elettrica, l’altra mano è affondata nella tasca destra di un ampio impermeabile. Più tardi lo vedremo estrarre una pistola.
Fotografiamo in silenzio il tesoro. Passano quindici, venti minuti. L’alba si approssima e dobbiamo affrettarci. A gesti ci fanno capire di fare presto, sono nervosi forse quanto noi.
A lavoro concluso, ci bendano nello stesso modo e ci accompagnano alla vettura. Incespichiamo risalendo la scarpata. Il tragitto all’inverso sembra più breve, ma forse è la diminuita tensione a farcelo credere.
Faccio qualche domanda. Mi risponde, ritengo, l’uomo al volante. Il cerotto mi copre anche le orecchie e intendo a fatica una voce falsata da una calza o da un fazzoletto. Il dato fondamentale della risposta è che le monete hanno cambiato di proprietà. I ladri se ne sono liberati, o sono stati costretti a farlo, sotto la duplice pressione della polizia e del racket della zona indispettito dalle conseguenze del furto. I ladri di Gela, insomma, hanno fatto una «fesseria” e finiranno tutti “incastrati». Ma le monete non le trova più nessuno. Loro, i nuovi proprietari, non hanno fretta di vendere, e comunque sanno a chi vendere con tutta tranquillità. Siamo sicuri al cento per cento, dicono, che niente e nessuno metterà la polizia sulle loro tracce.
L’auto si ferma, ne sentiamo scendere due persone, riparte e dopo alcuni minuti di strada asfaltata si arresta nuovamente col motore acceso. Qualcuno apre le portiere e ci aiuta a scendere con le borse delle macchine fotografiche. Siamo ancora bendati e già sentiamo l’auto che si avvia. Cominciamo a disfare la bendatura, il cerotto ci strappa un po’ di capelli. Finalmente rivediamo la nostra auto a pochi passi, nel punto dove l’avevamo lasciata.
Per noi l’avventura è finita, ma non per il medagliere. La collezione continuerà a rimanere nascosta per mesi, forse per anni. Almeno così mi hanno lasciato intendere. O forse è proprio vero il contrario, con le monete già in altre mani, magari nel Sud America? D’altra parte, chi si stupirebbe se un certo giorno il bottino venisse improvvisamente e misteriosamente “recuperato” dalla polizia o dalla Soprintendenza? La storia dei furti di materiale artistico e archeologico è costellata di ritrovamenti inattesi. Dietro riscatto, naturalmente. E allora ci si potrebbe spiegare la ragione per cui gli attuali possessori della collezione di Gela hanno consentito a me e al fotografo di fare questo servizio. Tutto interesse loro, insomma. Mentre ragiono col fotografo su questa ipotesi, il sole ha già schiarito il cielo.
* Tratto dal settimanale Epoca del 1973