I volti allegri e spensierati dei ragazzi ed i sorrisi accoglienti degli insegnanti, i moniti austeri delle autorità scolastiche, gli editoriali pensosi degli esperti, le statistiche impietose sciorinate ad ogni inizio d’anno, qualche tenera lacrimuccia da abbandono: l’apertura dell’anno scolastico è una liturgia che si rinnova su un altare di ex voto ricchi di promesse non mantenute, delusioni sperimentate e futuro incerto.
Il candelabro posto al centro dell’altare è una fiammella fioca che si alimenta dei sospiri degli addetti ai lavori. I quali in larga misura, a prescindere da competenze accumulate e da vocazioni maturate, tirano la carretta. Tutto questo è il vernissage d’inizio d’anno, che mette in primo la centralità della scuola per qualche giorno.
L’informazione infatti macina tutto, il mondo non si fa mancare niente, specie in quella parte del pianeta abitato da chi non ha niente, né voce in capitolo né il necessario per campare, né la comprensione e la tolleranza del resto dell’umanità, quella che cura i suoi affanni affidandosi al terapista.
Mi sembra di sentire la voce fastidiosa di quel personaggio che rappresenta il governo italiano, che ci invita a considerare un atto di guerra l’arrivo dei sopravvissuti al viaggio per mare alla volta di Lampedusa, mentre mostra i segni inequivocabili della fede nel Padreterno misericordioso, cui ha riposto la sua missione terrena. E’ la voce di chi a scuola c’è andato senza…andarci.
Sento un’altra voce una voce che mi ammonisce, occupati dei fatti tuoi, mi ricorda, riportando la questione alle origini. Dove non c’è sapere, non c’è vita, non c’è libertà, non c’è dignità. Niente.
In questo contesto smisuratamente vasto nel quale viviamo, grazie alle interconnessioni, si è indotti ad accendere un cero alla Madonna ogni santo mattino per il fatto di essere nati “altrove”, di non fare parte dei barbari invasori, spogliati perfino della povertà come causa della fuga dalla loro terra.
Il cero, tuttavia, non riesce ad illuminare la realtà che lo circonda, a descriverci i colori della “normalità” (rispetto al mondo degli sventurati), a farci protagonisti di una storia diversa, che poggi appunto sul sapere e non ci faccia ascoltare il verbo dei potenti senza anima, impastati di egoismo, impaludati nell’ignoranza di ogni coscienza vuota.
I pensieri intristiscono, ma non è un male in assoluto. Gela ha avuto la sua Caivano, quando l’industria ha invaso il territorio, la fabbrica ha sostituito la campagna, l’aria ha odorato di pesce rancido ed il mare si è macchiato di chiazze nere. La scuola era disertata da tanti ragazzi a quel tempo (un boom di nascite nel dopoguerra e nel decennio successivo) ed una èlite frequentava con alterne fortune la scuola secondaria.
I ragazzi che disertavano, non se ne stavano con le mani in mano, non giocavano a pallone nei cortili, ma scimmiottavano gli adulti e, talvolta, contendevano loro la ferocia e l’audacia per farsi largo. Partecipavano alla guerra di mafia, schierandosi da una parte o dall’altra, o lavorando in proprio. C’erano anche ragazze a comandare il branco, la gang, la banda. Altri tempi, grazie a Dio.
Morti per vendetta, per denaro, per il potere, il predominio del territorio. La scuola s’occupava d’altro, come oggi: Manzoni, Dante, il Risorgimento, il teorema di Eucliide, la critica della ragion pura eccetera. Il sapere che non faceva…sapere niente su ciò che accadeva sotto gli occhi, volenterosi e non. Come potesse conquistare la centralità, una scuola che ignorava la realtà, è un mistero: Eppure a elaborare programmi c’erano fiori di esperti, ed a salire in cattedra c’erano docenti rispettati, motivati e provvisti di nozioni e conoscenza.
I quaranta anni della fabbrica fino alla sua obsolescenza sarebbe rimasta fuori dalle mura granitiche della scuola di ogni ordine e grado: ed è davvero difficile pensare che questo assordante silenzio possa essere addebitato unicamente ai programmatori centrali. Non c’è materia, argomento, vicenda prettamente curriculare che non possa essere arricchita da una conoscenza puntuale della realtà, con le implicazioni che ciò comporta.
La fiammella della centralità, insomma, non è mai riuscita a strappare le ombre al di là della cattedra. Occorreva che la cattedra brillasse di luce propria, che essa possedesse conoscenza e consapevolezza della realtà, si fosse fatta una opinione su ciò che accadeva fuori della proverbiali mura scolastiche.
La centralità della scuola non serve solo all’istruzione ed alla formazione degli allievi, ma serve alla comunità nella quale la scuola opera. La scuola di Gela deve diventare la “fabbrica” di uomini e donne destinati a imprimere una svolta alla comunità, fermando il malinconico triste, immeritato declino della città.
La scuola può giocare un ruolo chiave nello sviluppo del talento locale, preparando gli studenti per ruoli di leadership nella comunità stessa. Ciò contribuirà a garantire un futuro sostenibile per la comunità.
Le scuole possono stabilire partenariati con le imprese locali per offrire opportunità di apprendistato, stage e programmi di orientamento professionale agli studenti. Questi partenariati possono aiutare a preparare gli studenti per il futuro lavorativo. La scuola e la comunità dovrebbero pianificare a lungo termine per il futuro. Questo potrebbe includere l'adozione di nuove tecnologie educative e la creazione di programmi di sviluppo economico basati sull'istruzione..
Perché divenga il fulcro di una comunità, la scuola deve fornire un'educazione di alta qualità per tutti gli studenti. Questo significa avere insegnanti ben preparati, programmi accademici robusti e risorse sufficienti per garantire che ogni studente abbia accesso a un'istruzione di livello elevato, promuovendo un forte coinvolgimento dei genitori e della comunità.
In sintesi, la centralità scolastica in una comunità che vuole affidare il suo futuro all'istruzione implica una visione integrata dell'istruzione come parte fondamentale della vita della comunità stessa. Le scuole devono essere viste non solo come luoghi di apprendimento, ma anche come centri di crescita, inclusione e sviluppo comunitario.