Forse la storia di Gela è la storia di una metafora.
Forse è un romanzo di ordinarie ruberie. Forse è il racconto di una comunità che dalla sua origine, vecchia di millenni, ha vissuto il destino malato di gerarchie imbelli. Forse è vittima di un incantesimo o di un anatema, che non ha né principio né fine.
Forse è depositaria di misteri banali incaricati di non farci capire niente. Una ridicola marionetta, una creatura alata che ha smarrito il suo sciame, una comunità colpita dalla sindrome del barone di Munchausen, che ama vivere di fantasticherie e per non annegare s’aggrappa alla coda dei suoi capelli…Un popolo di sogni, un mito inventato. O, semplicemente, il simbolo di chi cerca di spendere ciò che non ha guadagnato. Che cosa resta da fare? L’unico mezzo di cui una comunità dispone per fronteggiare il tempo è la memoria.
E la memoria è stata strappata di dosso a Gela insieme alle mostrine, come fosse un militare degradato sul campo per alto tradimento. Lo sproloquio è suscitato dalla brutale realtà, che mi fa arrampicare sullo specchio ustorio, riduce il sentiment in un mozzicone di sigaretta sputato a terra perché brucia le labbra. Ma non ci si può sottrarre al bisogno fisico di guardarsi attorno cercando le responsabilità che stanno dentro di noi. Inconfessabili e senza tempo.
A chi addebitare questo bilancio infame? Ai sicani, siculi, micenei, rodio-cretesi, arabi, terranovesi, spagnoli, francesi, americani, italiani del nord, che ci hanno preceduto e stanno con noi? I Geloi fondarono Akragas, furono deportati a Siracusa, cancellati e poi sono ricomparsi da chissà dove. La città è stata rasa al suolo tre volte. Riconoscere una identità è impresa ardua, quanto costruirne una, nuova di zecca. Ma non si può rimanere nel limbo per 25 secoli, mentre il mondo gira, e non lo fa certo attorno a Gela.
Che cosa provoca la espettorazione di fiele? Il saccheggio dell’arte antica, la mutilazione della memoria. E’ un tema che mi appassiona per la sua esemplare brutalità, il suo valore di metafora di una storia odiosa. Man mano che sfoglio le carte, i contorni del sacco di Gela si delineano ancora più feroci di quanto immaginassi. Negli ultimi due secoli è stata ingaggiata una guerra impari fra gli archeologi e i ladri di memoria e di arte.
Al fronte, gli scienziati della storia antica, che scavano trincee per fronteggiare il nemico, spalleggiato dalle autorità costituite, dai politicanti di ogni tempo: borboni, savoiardi, liberali, fascisti, democratici. Paolo Orsi, Piero Orlandini, Dinu Adamasteanu, Ernesto De Miro, Rosalba Panvini ed altri da una parte, armati di conoscenze e buone intenzioni, e dall’altra “il famigerato Sanapone”, come lo chiama Rosalba Panvini in una sua relazione, scritta a due mani , con Marina Congiu.
“Sono ben noti a tutti i ritrovamenti effettuati da Paolo Orsi a Gela, dove egli era stato inviato per porre fine alla piaga degli scavi clandestini, che si protraevano da decenni senza alcun controllo, tantomeno di quello delle autorità locali; anzi, mentre gli esponenti delle illustri famiglie del tempo ed alcuni dei politici andavano formando le proprie raccolte (ricordiamo quelle della famiglie Navarra, Campolo, Mallia, Nocera, Giudice e dei sigg. Tedeschi, Di Dio-Magrì), il locale comune si accontentava di pochi ed insignificanti frammenti, che niente avevano a che vedere con le importanti ceramiche, le monete e le terrecotte sottratti dalle necropoli e da altri contesti della colonia rodio-cretese.
Si trattava di centinaia e centinaia di vasi di produzione attica, rinvenuti nelle necropoli di età arcaica e classica, che si estendevano, come poi ebbe modo di accertare il grande archeologo, proprio nei poderi di quelle famiglie già citate, mentre altri esemplari della stessa classe venivano contemporaneamente trafugati dagli scavatori, capeggiati dal "famigerato Sanapone", trasferiti fuori dai confini della Sicilia, finendo per raggiungere i grandi Musei dell'Europa».
Mentre Rosalba Panvini denuncia lo scempio, Gela scruta i reperti trasferiti da Gela a Caltanissetta da una sovrintendenza alle antichità che parteggia per il capoluogo, come fosse l’ultima spiaggia. Delirante. Chi è “il famigerato Sanapone” e nelle mani di chi sono finite i suoi beni? Quali sono gli itinerari seguiti dal traffico di arte antica? E chi ha ereditato la “banda” di scavatori di frodo che agli ordini del capo, Sanapone, dominava il mercato dell’arte antica di Gela, il più fiorente d’Europa, forse uno dei più importanti al mondo, considerando la lunga attiva permanenza (ben due secoli, forse più)
Rosalba Panvini e Marina Congiu si pongono molti interrogativi ed esplorano alcuni enigmi. Il saccheggio, scrivono, non ha conosciuto soluzione di continuità. Ha attraversato tutti i regimi, dai borboni alla seconda repubblica. Mentre si scopre la magnificenza della polis greca, tanto da cambiare il nome alla città (nel 1927 finisce di essere Terranova) ed il Duce regala alla città “l’onore” di una visita, il saccheggio, riprende con maggiore lena dei primi decenni del Novecento, finiscono i controlli e le campagne di scavo pubbliche, fatta qualche irrilevante eccezione.
“Eppure, dopo tanto fervore di scavi e ricerche, negli anni compresi tra le due grandi guerre, si registra una pausa degli studi su quest'area della Sicilia … Ci siamo chiesti il motivo di una così significativa inversione di tendenza…”. L’assenza dello Stato sarebbe da addebitare a Salvatore Aldisio, deputato del partito popolare di Don Sturzo, prima del Ventennio. Gela all’indice, insomma. “…ma anche ciò non è sufficiente a chiarire il problema, perché a Gela, proprio negli anni del Fascismo venne creato il Parco delle Rimembranze, nella sede dell'acropoli, dove ogni albero era contraddistinto, secondo gli indirizzi del regime, da una targhetta recante inciso il nome di un caduto in guerra; questo giardino della memoria era attiguo al Bosco Littorio, esteso fin sul mare e dove i giovani si recavano per la pratica dell'attività ginnica, avendo però sempre presente il ricordo degli eroi della guerra… permangono i dubbi sui motivi che determinarono il silenzio scientifico intorno a Gela e lo spegnimento dei fari della ricerca in questo angolo dell'isola, che pure aveva conosciuto la ribalta delle cronache archeologiche.”
Il silenzio servì ad arricchire il mercato ancora di più. Si lasciavano le porte aperte perché non c’era niente da rubare, e si chiudevano tutti e due gli occhi per non disturbare gli addetti ai lavori di scavo privato. Invece di portare in superficie i tesori sottoterra nell’area dell’acropoli di Mulino a Vento, si piantano alberi, quasi a suggello della intoccabilità dell’area. Un espediente. Fa il paio con la nascita di una Commissione per la protezione dell’arte antica, nata a Gela per volontà di Paolo Orsi, e composta dai padroni terrieri che saccheggiano il sottosuolo.
Dinu Adamesteanu, rumeno con cittadinanza italiana, pioniere dell’aerofotogrammetria applicata all’archeologia, nel 1933-1934 studia la monumentale opera di Paolo Orsi dedicata ai fortunatissimi scavi di Gela. Adamasteanu negli anni cinquanta incontra Piero Orlandini, l’archeologo che scopre il santuario di Bitalemi e realizza il Museo nazionale di Gela. I due archeologi, “Les deus de Gela” come sono chiamati da George Vallet nel 1980, portano a termine la ricerca archeologica di Gela e del suo retroterra che rimane a tutt’oggi esemplare e fondamentale ed è oggetto di una monumentale documentazione scientifica.
Guido Piovene, giornalista ed autore di Viaggio In Italia (Arnaldo Mondadori), intervista Adamesteanu nel 1956, “Mi disse che non si sarebbero mai fatti nella Grecia contemporanea templi colossali come a Selinunte ed Agrigento; né si sarebbero ammassati, come è avvenuto ad Agrigento, tanti templi tutti grandiosi in una valle sola. Né si trovano in Grecia, come qui, cinquanta vasi tutti in una sola tomba. Vi era già allora una tendenza sontuosa, e quasi megalomane, nella Sicilia…”
In una lettera inviata alla sua amica Daphne Margareth Phelps, Adamastenu racconta le vicissitudini vissute a Gela a causa “della malavita locale”. “lo stesso giorno del ritrovamento sporgevo denuncia con precisi dati di fatto … Avevo il numero esatto delle monete e delle circostanze, delle persone implicate e così la Questura poteva procedere, assieme ai Carabinieri, alla grande battuta…sono rimasto solo con Commissario dr. Savoia, senza alcun appoggio.
Anche quando tutte le persone implicate erano cadute nella maglia di ferro nostra, nessuna è venuta a portare spontaneamente il gruzzolo di monete; tutto è stato ritrovato con minutissimi sequestri e perquisizioni, dopo estenuanti interrogatori. Perciò la colpa è grossa di tutte queste persone colpevoli di aver sottratto allo Stato il suo bene e di non averlo depositato subito”.
E’ stata una lunga guerra. Sarà mai possibile riprendersi la memoria perduta? E confidare su di essa per dare un futuro a Gela? Magari ricominciando da principio; proprio così da duemila anni prima di Cristo.