Le fredde ombre della storia ci obbligano a fare i conti con la nostra memoria.
Quella che abbiamo ereditato e l’altra, che abbiamo perduto. Per incuria, ignoranza, interesse. Nostra colpa, massima colpa. Dei saccheggi compiuti a danno della città abbiamo testimonianze inoppugnabili. Spetta alla comunità decidere se farne monito per il nostro tempo. Emerse dagli abissi del tempo, le ombre tornano ad interrogarci, testare le nostre volontà, sapere se le nefandezze compiute in passato aiutino a intraprendere una sacrosanta battaglia di recupero dell’arte antica, oggi sparsa nel mondo, fra collezioni pubbliche e private, musei siciliani e nazionali.
Quanto è avvenuto a Gela nei tre secoli precedenti al nostro, è stato raccontato dal direttore del Museo nazionale di Siracusa, Paolo Orsi, che alla fine dell’Ottocento e nel primo decennio del secolo successivo, fece un diario accurato del suo prezioso lavoro a Gela. Archeologo competente e galantuomo, Orsi, nato a Rovereto, cercò di arginare il saccheggio.
Non essendo Gela, allora Terranova, provvista di un luogo in cui depositare il materiale, i reperti che riuscì a strappare agli speculatori, salvati dalla devastazione, vennero assegnati a Siracusa, Agrigento e Palermo, e nella stessa Rovereto, città natale di Orsi, dove sono mostrati al pubblico reperti provenienti dagli scavi di Gela.
Già nel Settecento l’attività di scavo di privati comincia a far nascere un mercato dell’arte antica a Gela. La messa a coltura di terreni nelle campagne di Gela e nell’area attigua alla città regala a ignari contadini ed ai proprietari terrieri, affatto ignari, reperti di valore storico ed artistico.
Agli albori del saccheggio del sottosuolo. Il mercato non è ancora florido, ma la sua fama comincia a spargersi in Europa, tanto da stimolare la curiosità di viaggiatori stranieri, pronti ad acquistare il materiale ritrovato, posto in vendita senza timori a Terranova. Le leggi ci sono, il controllo e la vigilanza non esistono.
E’ una società post feudale quella dell’Ottocento a Gela: non c’è il feudo ma ci sono baroni e “benestanti” che esercitano di fatto un dominio pressoché totale sulla città: la povera gente da una parte, la borghesia e quel che resta della nobiltà dall’altra. I contadini e i braccianti scavano, i padroni si prendono tutto e vendono tutto ciò che trovano per arricchirsi. Nessuna remora morale, nessun indugio, nessun senso della misura. Le aree messe a coltura nella seconda parte dell’Ottocento regalano scoperte di grande rilievo. Il mercato dell’arte si arricchisce.
Nelle aree a coltura intensiva, spazio delle necropoli, si trova di tutto. In superficie non c’è più niente, è il sottosuolo che ha custodito i tesori dell’arte antica. I monumenti ed i templi sono stati già devastati nel tardo Medio Evo per soddisfare i bisogni di materiale di costruzione per la nuova città (Eraclea, Federico II). Ciò che è rimasto di Gela antica, dunque, sta sotto, conservato negli spazi sepolcrali.
Alessandro Pace, biografo di Paolo Orsi, rievoca “questa condizione di “anarchia archeologica, sviluppata nonostante un quadro normativo strutturato…,; è il risultato di un concorso di colpa tra lo Stato, incapace di fare rispettare le leggi, e i privati, che non le conoscevano o le infrangevano in maniera consapevole. In maggio del 1822, in Sicilia gli scavi archeologici sono regolati dai regi decreti ferdinandei, che fissano norme di tutela “piuttosto avanzate” per l’epoca. Gli scavi vengono sottoposti ad autorizzazione. Serve una licenza per operare. I lavori di scavo, inoltre, devono essere controllati dal sindaco o da un delegato del Real Museo Borbonico.
Se dal 1860 in poi il suolo di Gela fosse stato debitamente vigilato e studiato, osserva Alessandro Pace, tanto prezioso materiale sarebbe stato recuperato alle raccolte nazionali, “mentre ora è disperso”. La Direzione generale Antichità e Belle Arti (Ministero di Pubblica Istruzione) opera in Sicilia attraverso un Commissariato straordinario, diviso sul territorio fra i Musei di Siracusa e Palermo, con compiti operativi negli scavi, nella parte orientale e occidentale dell’isola. Il quadro di riferimento è plausibile, le norme non mancano.
Ma non c’è alcuna volontà di mettersi di traverso, anzi prevale, di fatto, una incuria interessata. Paolo Orsi riferisce di qualche eccezione, racconta di essersi servito anche di una rete di informatori, perché si possa intervenire per tempo. Ma l’azione repressiva in pratica è inesistente. Ogni volta che Orsi arriva sui luoghi in cui sono in corso gli scavi, i responsabili si trincerano dietro l’alibi della ignoranza delle norme e ottengono di fatto un salvacondotto per continuare la loro opera. I mercanti locali alzano anzi l’ingegno e per dare dimostrazione di buona volontà e senso civico costituiscono una specie di team a salvaguardia dei beni archeologici. Naturalmente, è una finzione. Serve a rassicurare le autorità regionali e nazionali, e tacitare il dissenso locale, semmai venga manifestato.
A Gela si costituisce una Commissione comunale, in ottemperanza alla legge. Nel suo statuto la Commissione si riserva il compito di contrastare gli «scavi nei luoghi pubblici, o di proprietà Comunale, riferendone all’Amministrazione le violazioni perché vi provveda». Il controllo non è esteso però alle proprietà private, che così possono disporre di ciò che trovano.
L’omissione non è affatto casuale. Controllare i luoghi pubblici e il demanio comunale è una furbizia, peraltro plateale, così manifesta da far sospettare che essa sia nata con il proposito di evitare controlli negli spazi di proprietà privata, lasciati fuori dalla vigilanza. E’ demandato alla volpe il compito di custodire il pollaio. La composizione dell’organismo locale di controllo spiega abbondantemente l’omissione della norma utile. I membri della Commissione sono tutti proprietari terrieri, tra di loro ci sono Emanuele Lauricella e Nicola Russo, noti scavatori e collezionisti. “Contro questa “indecente coalizione”, annota Pace, “dovevano rivolgersi gli sforzi di Paolo Orsi, deciso a riportare l’ordine in città”.
Per valutare il livello di devastazione della città antica – stavolta mi riferisco a monumenti, templi e edifici privati costruiti a Gela nell’arco di cinque secoli o sei – va ricordato che tutto ciò che è edificato viene distrutto dalle generazioni successive. La collina si trasforma in un deserto, per far nascere Eraclea, la città fortificata voluta dall’imperatore Federico II nel 1200 d.C. circa.
Spogliata delle sue vestigia antiche, di Gela greca non resta quasi niente, tanto che nella seconda metà dell’Ottocento sorgono seri dubbi che ci sia mai stata una polis greca sulla collina di Gela. La vicina Licata adombra l’ipotesi che Gela antica sia ubicata proprio a Licata. L’ipotesi si affaccia perché Gela è denudata delle sue spoglie, non c’è niente che ricordi la città antica.
La querelle chiama in causa, incredibilmente, anche storici ed esperti. Solo nel 1873 Schübring con la pubblicazione del suo “Historisch-geographische Studien über Altsicilien”, ricorda Pace, “pose fine a quella lunga querelle che aveva visto nei secoli precedenti Terranova contendersi con la vicina Licata l’eredità dell’antica Gela; tale disputa aveva impedito il cristallizzarsi nel tempo di una identità storica locale e di conseguenza ostacolato un’efficace e cosciente tutela del patrimonio archeologico cittadino, lasciato troppo a lungo in balia di sé stesso”.
L’incuria, l’ignoranza, il ricco mercato hanno a tal punto derubato Gela da cancellare la sua memoria e mettere in forse la stessa esistenza della colonia rodiocretese. Più che le ricerche dei dotti, si deve alla colonna dorica di Molino a Vento, se l’acceso dibattito si conclude con l’accertamento della verità. Resta esemplare l’episodio, che potesse nascere e divenire opinione comune “la credenza che l’antica Gela sorga in Licata, anziché in Terranova”, scrive Paolo Orsi nel 1906, “unico glorioso segnacolo della scomparsa di Gela rimasero erette durante parecchi secoli varie colonne del tempio al Molino a vento, le quali servivano di segnale ai naviganti e durante l’epoca araba.”
C’è materia per escursioni in svariati campi. Quella storia e quella cultura devastante, così lontana e insieme vicina a noi, ci sbatte in faccia la realtà, facendoci arrossire quando rivendichiamo oggi, a ben ragione, reperti archeologici di pregio che sono trasferiti e custoditi in musei dell’isola.
Gli archeologi che in passato hanno conservato altrove i reperti nei secoli della razzia non sono responsabili della spoliazione; essi hanno evitato che il materiale di pregio attraversasse i confini della nazione e si perdesse per sempre. Si deve alla ripresa degli scavi archeologici a Caposoprano e Mulino a vento, con il rinvenimento delle mura timoleontee e il santuario di Bitalemi, e al lavoro di grandi archeologi, come Piero Orlandini e Dinu Adamastenu, se si è posto un freno all’era della devastazione. Un freno, non una soluzione: i tombaroli hanno potuto fare il loro lavoro almeno per altri due o tre decenni.
E ora, che resta di fare? Una mostra dedicata alla nave greca rinvenuta sui fondali del golfo, un museo del mare, ed un’opera di ristrutturazione ed ammodernamento del Museo di Gela, si è riaperto il capitolo di Gela antica, oscurato anche dall’età del petrolio.
Piuttosto che lacrime di coccodrillo, fasciarsi la testa, coprire il capo di cenere, è il tempo di dimostrare che Gela moderna sia degna di Gela antica; solo così le richieste di restituzione di reperti trasferiti altrove, non si traducano in pretese di campanile. Meritarsi Gela antica significa, anzitutto, conoscenza, divulgazione, valorizzazione. Non penso a comitati, la cui fama è decisamente negativa, o a truppe d’assalto, per la riconquista dei beni rubati, ma a una educazione al bene comune ed alla memoria comune.
Il polo scolastico di Gela può contare su eccellenze e su una domanda d’istruzione straordinariamente larga. Ogni istituto, ogni scuola, ogni docente, ogni studente può adottare qualcosa della Gela antica, e non una volta l’anno, ma per l’intero periodo di istruzione: un periodo, un personaggio storico, un monumento ecc. Gela ha una storia ricchissima che inizia undici secoli prima di Cristo, c’è tanto da scegliere; tanto su cui studiare.
L’adozione è custodia, vigilanza, ricerca, studio, promozione; è anche prezioso strumento di partecipazione alla vita pubblica. La storia e l’arte sono veicoli identitari, attraverso i quali si cresce come cittadini consapevoli. Il passato è presente a noi stessi se promuove un futuro responsabile, consapevole, ricco di prospettive. Regala orgoglio, identità, entusiasmo. Cantare in latino o in greco una canzone dei Beatles non può bastare.