“…Faticosamente la donna s’inginocchia e mormora; Vergine Madre fa’ che la creatura che porto nel seno e presto (lo sente!) vedrà la luce, cresca buona come l’acqua che disseta, e pura…
L’albero dà i suoi fiori e quindi i suoi frutti che racchiudono i semi che dovranno assicurare la continuità della vita. Ma talvolta accade che un vento sinistro venga a scuotere quei frutti prima che giungano a maturazione, e minacci di disperderne i germi vitali…
“Il ciocco crepita nel focolare avvolto in cento lingue di fuoco che diffondono intorno un grato tepore. Due tremuli lumicini, accesi dinanzi al presepe, rischiarano il Bambinello che giace e sorride sulla paglia lucente, tra il verde della borraccina e le pecorelle di gesso che immote guardano accanto ai pastorelli variopinti, anch’essi di gesso, recanti rustiche zampogne. Pace fiorita di bontà e liete promesse! L’ora è tarda e invita al riposo… Ma un tratto i vagiti del piccolo si fanno convulsi, si convertono in un rantolo penoso come se una forza maligna”...
E’ il prologo di una biografia dedicata ad un illustre figlio di Gela, che ebbe in sorte di nascere il giorno di Natale. Lessico, parole, contenuti mandano indietro il tempo di molti anni. Il Bambino Gesù e il nuovo nato paiono scambiarsi i ruoli, c’è il profumo di altri tempi, una devozione verso il nascituro che rivaleggia con il Bambin Gesù.
Il brano gronda felicità, gratitudine, affezione. E’ di una retorica assordante. Chi è il nascituro? Chi è l’autore della biografia e quando è stata scritta? Al primo quesito si può rispondere facilmente, il nascituro è Salvatore Aldisio, di cui oggi si è persa la memoria, o quasi; il libro da cui sono tratti i brani è “La figura e l’opera di Salvatore Aldisio“, che ha visto la luce nel 1962, in occasione del settantesimo genetliaco di Aldisio.
Nessun dubbio sulla data di nascita del libro. Eppure il testo alcuni dubbi li pone. La scrittura obbliga a retrodatare l’opera e indagare sul biografo, Giuseppe Geloo. uno pseudonimo. Chi si nasconde dietro lo pseudonimo? E perché si nasconde?
C’è un proverbio “nativo”, gelese dunque, che così suona: “muccia, muccia che tuttu pari”. Quando lo zelo nell’occultare è esagerato, viene alla luce più facilmente la verità. Nel nostro caso succede però il contrario. Piuttosto che per zelo, Giuseppe Geloo muore per la voglia di far sapere chi si nasconde dietro lo pseudonimo. Già nella prima pagina del testo, l’autore lascia che il lettore, in una nota a margine, sappia che il deus ex machina è Nunzio Vicino, docente di lingua francese e “cultore di storia patria”, animoso intellettuale gelese dalle tinte forti.
“Ritengo opportuno palesare come il presente lavoro sia nato”, avverte Nunzio Vicino, “Fui invitato a scrivere sulla vita del festeggiato illustre, un articolo da pubblicare in un quotidiano. Aderii di buon grado, ma lo scritto risultò piuttosto ampio…”.
La rivelazione è una mezza rivelazione, ma a Vicino basta per sentirsi appagato. Più oltre non può andare. Resta perciò un piccolo alone di mistero, il sospetto di un ghost writer, uno scrittore dalla buona penna. Il sospetto diventa l’anticamera della verità a buon ragione, e il nome che ricorre è quello del prof. Virgilio Argento, gentiluomo d’altri tempi, dall’eloquio aulico. Chi se non lui, dunque? Gli attestati di benemerenze giungono copiosi a Virgilio Argento. Vox populi, vox dei. Giuseppe Geloo è lui, e non può essere altrimenti.
La vicenda prende una piega che non piace affatto a Nunzio vicino, che ritiene “l’opera” una sua creatura. Una coda velenosa al genetliaco di Salvatore Aldisio, che divide la città: da una parte i sostenitori di Vicino e dall’altra quelli di Argento. E che non sia solo una controversia letteraria lo si capisce subito. Nunzio Vicino brandisce l’ascia di guerra, Virgilio Argento, diviene, a sua insaputa, pericoloso sodale dell’Illustre Personaggio, del quale ha fatto il panegirico, e quindi per ciò stesso in odore di laticlavio. Salvatore Aldisio ha perso i contatti con Roma e Palermo, ma può ancora decidere il futuro della Dc di Gela, e non solo. La disputa corre su più fili. C’è il delfinato di Aldisio di mezzo.
La biografia esce dal perimetro letterario e subisce una specie di esame autoptico. Bisogna stabilire, una volta per tutte, chi è Giuseppe Geloo. La pagina più visitata dagli analisti è il “Presagio”. Della quale va dato conto.
“Secondo un’antica credenza popolare, recita il Presagio, poeticamente riflessa in ingenui racconti favolosi, allorché un bimbo nasce sulla terra, in cielo si accende una stella che, con la sua luce, ne guida i primi passi e poi l’accompagna per tutto l’arco della sua vita, sino al tramonto.
“La stella che si accese, allorché Salvatore Aldisio mandò i primi vagiti, aveva un’aureola di luce che faticosamente si riverberava su nubi trasvolanti, ora tenui ed evanescenti come sogni, ora spesse e grandi come iceberg, riuscendo alla fine a penetrarle ed a trionfarne: presagio di una vita adamantina, che avrebbe conosciuto il tormento sempre tenace, talora angoscioso, della lotta e l’alone della gloria più bella, rosario doloroso e gaudioso di lotte, affermazioni e trionfi.”
Nubi trasvolanti, riverberi tenui ed evanescenti, rosari dolorosi, stelle amiche, aloni di gloria. Sulla “proprietà” letteraria di questa prosa si accende e si sviluppa la controversia più popolare della storia di Gela. Lessico d’altri tempi, disputa dei giorni nostri, almeno nell’ossequio al “principe”.
Che tuttavia non è servile, nonostante lo stile rococò del testo. Virgilio Argento è però un signore fuori posto rispetto ai tempi in cui è vissuto, parla, scrive e si comporta come un cavaliere disarmato del Quattrocento. Sono un testimone attendibile della sua diversità, avendolo frequentato per anni, da docente della scuola di cui Argento era preside. Ricordo, per darvi qualche elemento di giudizio, che nell’esaminare i miei registri scoprì che non davo voti, e annotò l’assenza con un tratto di matita perché potesse essere sanata. La sua genuina pedanteria va rispettata ancora oggi. Era un gran signore.
La controversia si accende quando Nunzio Vicino, in calce ad un articolo a sua firma, cita lo scritto come brano integrante del libro conteso sulla “Figura e l’opera di Salvatore Aldisio”, annettendosi di fatto la paternità. Vicino volle sancire la verità: Giuseppe Geloo sono io… Virgilio Argento stavolta non tace e non acconsente: scrive in una lettera indirizzata al direttore del “Corriere di Gela”: l’autore sono io.
E Vicino si è occupato, diciamo così, della logistica. “…la collaborazione del nominato prof. Vicino si esplicitò nei seguenti termini: mi fornì varie notizie biografiche su Aldisio, procurò la documentazione fotografica; si interessò della revisione delle bozze; si adoperò perché un eminente uomo politico del nisseno, oggi scomparso, donasse la carta per la stampa e sostenesse le spese di tipografia; infine curò la distribuzione delle copie. Questo fu il “lavoro” del prof. Vicino, che non mi sembra sia tale da giustificare l’attribuzione, che egli ha fatto a sé stesso, della paternità dell’opera”.
La controversia coinvolge il “Corriere”, che ha ospitato la lettera di Argento. Perché la giudica, nei toni, “offensiva verso il riconosciuto prestigio dell’ex preside”. L’ira di Vicino esplode. Ricorre al volantinaggio del testo non pubblicato. Roba forte, tanto che Argento, contravvenendo ad uno stile di vita sobrio, non se la tiene.
E confuta l’accusa più bruciante lanciata da Vicino, quella di nutrire bile verso l’Illustre Personaggio, chiamato in ballo ma “innocente”. “…mi si attribuiscono sentimenti di “odio” verso Aldisio”, scrive Argento. “Non so come si possa scendere a scrutare nell’intimità della coscienza di una persona; posso, però, dire (e mi si perdoni la presunzione) che odiare è sentimento estraneo alla mia filosofia di vita. Non ho odiato e non odio nessuno: nemmeno chi mi offende e mi fa del male”.
Ma non finisce qui. Entra in campo nella controversia, divenuta leggendaria, un altro uomo di lettere, non invitato da chicchessia, Nunzio Sciandrello, docente di lettere al Classico Eschilo. E’ una istituzione, gode fama di genio della cattedra, di affabulatore eccelso. Il suo expertise è un verdetto inappellabile. Il suggello della verità. “Giuseppe Geloo, scrive Sciandrello sul “Corriere di Gela”, è manzonianamente persuaso che il male è ineliminabile, che la giustizia assoluta è meta irraggiungibile nei limiti dell’aiuola che ci fa tanto feroci… Con quest’animo contempla la figura di Aldisio e la storia di Gela, della Sicilia e dell’ Italia: l’autore guarda il suo personaggio e la storia, di cui egli è uno dei tanti ingranaggi, con spirito pensoso e religioso. Egli, comunque, non vuole essere un semplice e nudo narratore di eventi”.
Il giudizio è esemplare, Sciandrello non conosce le mezze misure. Emesso il verdetto, ne fa il ritratto della verità inconfutabile. Il suo giudizio, tuttavia, è corredato da motivazioni di indubbia efficacia. Vicino è agli antipodi di Argento, come provano le sue fatiche editoriali – osserva Sciandrello – “... lo stile della biografia aldisiana dissente da quello di Nunzio Vicino, stile che è asettico, distaccato, analitico, teso ad informare, uniforme: Il lessico, la sintassi, l’atteggiamento sono “ellitticamente cronachistici … Giuseppe Geloo, è scrittore di razza, storico degno di lode… mi ha riproiettato nel lontano passato, ha fatto sì che rivivessi e conoscessi il mondo di mio padre, che capissi il mondo in cui sono vissuto”. La paternità del libro va concessa a Virgilio Argento.
Questa era Gela. Da lì a poco, la rivoluzione industriale, con i suoi trentamila “forestieri”. La fabbrica avrebbe rubato il bosco, le dune di sabbia e un lungo tratto di costa. Un altro mondo. Si pretese l’impossibile, che i nativi capissero ciò che stava per succedere. Vicino, Argento e Sciandrello sono gli ultimi rappresentanti di una città che sta per scomparire, una comunità che guarda il mondo servendosi di una lente d’ingrandimento, che coglie ciò che ha sotto il naso, ma trascura l’orizzonte.
Sarebbe un errore giudicare malamente i protagonisti di questa controversia dai confini così limitati. Conservando il ricordo, vivido, di ognuno, potrei elencarne virtù e competenze, senza tuttavia farne interpreti della loro contemporaneità, della loro storia. Vicino era un infaticabile investigatore grondante passione civile, Virgilio Argento un inappuntabile civil servant, Sciandrello un incantatore. Uscivamo dalle sue lezioni, come dal cesto di vimini escono i rettili: la sua voce era uno strumento musicale. Somigliava ad Arnoldo Foà sia per la voce, profonda, quanto per i tratti somatici.
Studiavamo danzando, rapiti dalla magia della “Commedia” recitata come Foà, forse meglio di Foà. Nella sua analisi che mette la parola fine alla controversia sembra un “consulente” di parte che dice cose giuste con un inspiegabile eccesso di zelo, al punto da far sospettare una inesistente partigianeria. Anche il mio magico indimenticato prof. subiva l’umore retrò di una comunità rimasta off shore, al pari di quei mostri che popolavano il golfo del petrolio. Una comunità colta alla sprovvista, entusiasta e inconsapevole del suo destino.