Per ben oltre mezzo secolo Gela ha rappresentato un caso di studio, che andava ed andrebbe approfondito, di come due settori inevitabilmente trainanti un’economia locale quali l’industria pesante e l’agricoltura, hanno convissuto fianco a fianco, senza di fatto degnarsi del minimo sguardo.
Il mancato dialogo tra il comparto agricolo, che era il fattore principale di spinta economica della città fino all’avvento del petrolchimico e quest’ultimo, è stata una delle cause di una crescita che c’è stata per alcune dimensioni, ma che nel complesso ha disatteso l’obiettivo di un vero e proprio decollo economico del territorio.
Più che la crescita demografica, la sensazione che Gela nel periodo di massima espansione industriale, veicolasse migliaia e migliaia di presenze tra residenti ed ospiti, era nettissima. Purtroppo, ciò che l’Istat può dirci oggi sulla popolazione non residente ma che vive ed opera - con tutto quel che ne deriva in termini economici - in un dato territorio, non può dircelo per quegli anni perché non aveva ancora strumenti e tecnologie idonee a rilevare questo dato con un minimo di attendibilità.
Di certo, questa presenza era fortemente percepita in città ed il settore che ne ha fortemente beneficiato è stato quello del commercio (al dettaglio) e dei servizi (ristorazione, strutture ricettive). Non pochi esercenti hanno visto riempirsi le proprie tasche ed alcuni non hanno avuto remore financo ad ostentarlo, festeggiando il traguardo del miliardo di lire raggiunto. Ma tale benessere non indusse questo settore a stringere una sinergia di comparto con l’industria, come se tanta ricchezza fosse manna piovuta dal cielo.
Il vero boom lo hanno fatto la metalmeccanica e l’edilizia, settori accompagnati da quello elettro-strumentale. L’avvento del petrolchimico portò vari braccianti a formarsi e specializzarsi in lavoratori metalmeccanici, edili ed elettro-strumentali, per la costruzione del petrolchimico. Gli stessi formarono il bacino dell’indotto, operando soprattutto sul versante della manutenzione regolare e ciclica (fermate) nel momento in cui il petrolchimico entrò a regime. Nacque la scuola salesiana che formò anche gli attuali trasfertisti gelesi, tra i più apprezzati nel mondo. I
l boom edilizio, accanto un Prg lacunoso, fornirono linfa vitale all’abusivismo edilizio, fenomeno letteralmente esploso in quegli anni: un fenomeno in cui l’abusivismo di necessità si sposò felicemente con quello meramente speculativo. Ettari di terreno lungo la piana di Gela furono sottratti all’agricoltura. Ettari di terreno che si assommano a quelli occupati dal sito industriale in contrada Piana del signore e dalla zona industriale che si generò negli anni a seguire.
Senza girarci troppo intorno, in un paese prevalentemente rurale qual era la Gela pre-stabilimento, l’agricoltura che ancor oggi chiamiamo settore primario, subì l’avvento dell’industria pesante di Stato, senza avere alcun vantaggio, né compensazioni, in termini di ritorno. L’industria pesante rappresentata dal petrolchimico, tolse all’agricoltura non solo ettari di terreno ma anche acqua (che poteva essere destinata ad uso irriguo), nonché il primato degli occupati: nel momento più fulgido tra diretto ed indotto il petrolchimico toccò i 10 mila occupati.
Il reddito operaio, inizialmente basso tanto da indurre diversi gelesi a lasciare il posto a tantissimi forestieri, si rivelò negli anni molto più alto rispetto a quello agricolo e superiore in media anche ai colleghi di altri siti industriali. I benefici in grosse buste paghe contribuivano ad aumentare non solo il gettito dell’irpef, ma anche il pil locale e movimentavano diversi comparti dell’economia locale, ma non quella agricolo.
Oltre a non avere feedback dal core business del petrolchimico (raffinazione greggio, plastica e chimica di base), l’agricoltura incassava i danni di terreni contaminati dalle perdite nei tubi sotterranei di collegamento con le trivelle lungo la piana di Gela, una delle più fertili dell’isola e la seconda per vastità in Sicilia, dietro solo la piana di Catania.
Il 2014 segna però una svolta. Quel quadro di industria pesante svanisce del tutto. Eni decide di riconvertire. I termini diventano decarbonizzazione, decomissioning, sostenibilità ed economia circolare. Le condizioni per aprire finalmente un dialogo tra agricoltura e industria ci sono tutte ma la chance viene ancora una volta bruciata. Ennesima occasione persa in un territorio che continua a pagare dazio nelle sue ataviche contraddizioni. Nel protocollo d’intesa, tra le iniziative minori, c’era un progetto di ricerca condotto da Versalis (controllata chimica di Eni) sulla coltivazione del guayule.
Una pianta grassa originaria di zone desertiche dell’Arizona (Usa) e del nord del Messico dal cui processo biochimico di lavorazione scaturiscono diversi derivati. L’idea principale è quella di realizzare un impianto di bioraffineria incentrato sul guayule, con l’obiettivo di ridurre al minimo lo scarto, massimizzando tutte le lavorazioni. Raccolta la pianta dal campo vengono estratti dalle foglie oli essenziali e principi attivi da impiegare come conservanti nel campo della cosmetica. Dalla parte più legnosa si estraggono lattice da destinare al settore biomedicale e gomma vegetale per la produzione di pneumatici. In quest’ottica rientra l’accordo strategico sottoscritto da Versalis e Bridgestone nel 2018.
Del residuo che rimane, attraverso processi proprietari di idrolisi e di fermentazione, si perviene al butandiolo, a sua volta convertito in butadiene e polimerizzato in polibutadiene, che già Versalis produce dal petrolio e che invece col guayule diventa green. Già con le prime coltivazioni sperimentali, la vasta piana di Gela è stata ignorata. Due inizialmente i siti “Esa” dell’isola coinvolti: Barcellona Pozzo di Gotto (nel messinese) e Cammarata (nell’agrigentino). Le sperimentazioni sono poi continuate in Basilicata. L’abbandono dell’isola non deve però sorprendere, alla luce della spirale involutiva dell’impegno Eni nella biochimica in Sicilia, destinato a scomparire del tutto con la chiusura definitiva di Ragusa e Priolo entro il 31 dicembre di quest’anno.
Ma era nel fulcro del protocollo del 2014, vale a dire la Green Refinery, che si apriva lo scenario più promettente affinché questi due settori economici, nel continuare a coesistere, iniziassero finalmente anche a parlarsi. La bioraffineria di Gela produce biocarburante di qualità (Hvo - Olio vegetale idrogenato) a partire da materie prime di origine biologica. Alla base del processo vi è la tecnologia proprietaria ecofining.
La bioraffineria è alimentata prevalentemente (circa 85%) da materie prime di scarto, come oli esausti da cucina, grassi animali e residui dell’industria agroalimentare per la produzione di biocarburanti, Hvo diesel, bio-Gpl, di bio-jet e di bio-nafta destinata alla filiera della chimica. A Gela è in costruzione l’impianto per la produzione di carburanti sostenibili per l’aviazione (Saf). I bio-componenti trattati, una volta distillati, daranno origine a Eni Biojet, un carburante miscelabile con il prodotto convenzionale.
Inizialmente Rage dovette ricorrere all’olio di palma per alimentare la bioraffineria, con la promessa però che lo avrebbe abbandonato nel breve tempo possibile. Promessa mantenuta. In un’ottica di economia circolare, in questa fase iniziale di utilizzo dell’olio di palma, si poteva dialogare con Eni per individuare nella piana di Gela, terreni che potessero fungere da “Agri hub”. Eni ha poi deciso di individuarli in Kenia.
Negli agri hub africani si producono oli vegetali da colture resistenti alla siccità come il ricino, e da scarti agro-industriali che, una volta trasportati nella bioraffineria di Gela e lavorati, diventano biocarburanti. Materie prime non concorrenziali con quelle tipiche dei carciofi, pomodori, vite, ortaggi e frutta, prodotte in loco e grazie a cui il comparto è sopravvissuto al petrolchimico, tornando ad essere quello con più numero di occupati, all’incirca cinquemila.
Non solo, per anni il sito gelese ha ospitato l’impianto pilota “Waste to fuel” che produce biocarburanti dalla frazione organica dei rifiuti. L’implementazione di questa tecnologia a quella dell’ecofining avrebbe creato un vero e proprio modello di economia circolare locale. Invece non è stato possibile. L’impianto è stato avviato nel gennaio 2019, con l’utilizzo di rifiuti urbani (fino a 100 kg/giorno) provenienti dai comuni dell’area di Ragusa (più affidabile nella raccolta differenziata rispetto a Gela) e si è conclusa nell’aprile 2022, in linea con l’autorizzazione concessa dagli enti.