Nell’ottobre 2014, giusto 10 anni fa, il sogno di Mattei a Gela si infranse definitivamente.
Si cambiò pagina una volta per tutte con il de profundis della raffinazione convenzionale (greggio) e la fine del tanto famigerato pet-coke, attraverso un protocollo di intesa tra Eni, politica e sindacati. Il tutto mentre la città aspettava ancora di conoscere ufficialmente i veri motivi dell'abbandono della chimica. Motivi mai confessati dall’azienda per ovvie ragioni, ma palesati nelle cronache dei giornali, nelle indagini della procura, negli ingenti finanziamenti per le bonifiche. La città, quella sana ma dormiente, era ancora in attesa di capire perché Eni aveva deciso di investire milioni e milioni di euro a Sannazzaro de Burgondi e non a Gela, considerato che quella tecnologia fatta in casa, l'Est, ci permetteva di liberaci del pet-coke 6 anni prima.
Ci piacerebbe anche solo pensare che Gela abbia voluto dire addio al pet-coke, ma invece non lo possiamo dire, né scrivere. Anzi qualche anno prima Gela scese in piazza, invocò un decreto legge dal Governo Berlusconi per far togliere i sigilli della procura su alcuni impianti. Della raffinazione del greggio a Gela, del pet-coke che da rifiuto diventava combustibile perché reimmesso nel ciclo di produzione in un classico sistema chiuso che si autoalimenta, capace di raffinare anche il greggio più pesante, a non volerne sapere fu proprio Eni, appoggiato dai governi del Pd, nazionale, regionale e locale.
Ed i gelesi si fecero trovare impreparati, stupiti. I più anziani, specie quelli che avevano buttato sudore e sangue in quegli impianti, erano letteralmente increduli. Anzi, se vogliamo dirla tutta, i gelesi non lo capirono quel documento e non la presero bene. Dieci mesi dopo bocciarono alle urne l’uscente Fasulo e promisero lo stesso trattamento, non appena avessero avuto l’occasione, a Crocetta e Renzi.
Oggi rileggere il protocollo 10 anni dopo, induce quantomeno a qualche riflessione. Da quell’intesa si evincevano almeno 5 punti fondamentali. Il primo era la promessa da parte del cane a 6 zampe del mantenimento e della salvaguardia degli occupati nel diretto. Promessa di fatto mantenuta: in tanti andarono via da Gela ma nessuno fu licenziato. Il tanto temuto crollo demografico non c’è stato. La flessione è evidente, tanto da essere diventati da quinta a settima città siciliana, superati da Marsala e Ragusa. Ma tantissimi non hanno trasferito le famiglie come si pensava. Come quelli dell’indotto, si sono adattati alla vita del “trasfertista”, che si sposta da solo e mantiene il nucleo famigliare tra gli affetti e le abitudini della propria città.
Il secondo punto era quello relativo alla bioraffinazione. Eni iniziava ad utilizzare termini come decarbonizzazione, sostenibilità ed eco-compatibilità. Ma anche il più ingenuo dei gelesi era sospettoso. Chiedeva e si chiedeva, dov’è il tranello? Il tempo ci ha risposto che Eni non disse bugie, né sul forte ridimensionamento occupazionale nel sito gelese che preannunciò, né sulle prospettive rosee dell’impianto. Oggi Eni si vanta con tutti, che quella di Gela è la green refinery più innovativa del mondo.
Produce biocarburanti per la mobilità su strada, sui binari e persino per via aerea. E se anche non lo confessano apertamente, come se quel timore ad essere contraddetti dagli eventi fosse ancora vivo, i gelesi sussurrano tra loro che da quanto c’è la bioraffineria, il mare di Gela è bellissimo. Tanto che i sindaci dopo Fasulo hanno aspirato apertamente ad ottenere la bandiera blu di goletta verde ed altrettanto apertamente si spingono a creare nei cittadini aspettative su un futuro fatto anche di turismo balneare, tralasciando che la città si presenti ancora sporca, con una condizione ancora problematica dell’acqua ed uno status selvaggio in termini di mobilità.
Il terzo punto era quello relativo alle bonifiche e qui arrivano le prime note dolenti. Il protocollo recitava più precisamente di intensificazione della bonifica con relative ricadute occupazionali. Di tale intensificazione e relative ricadute occupazionali non c’è traccia. Ovvero, se ci sono, se esistono, non si vedono e non si percepiscono. I dati però parlano chiaro. Sullo stato di avanzamento delle bonifiche, il ritardo è manifestamente palese. Sullo stato di avanzamento della messa in sicurezza/bonifica siamo a metà dell’opera per la bonifica dell’acqua di falda e nemmeno ad un quarto per la bonifica dei terreni. Non ci risultano procedimenti conclusi.
Un quarto punto è quello delle compensazioni ed anche qui non mancano elementi di negatività. Si dice che siano soldi dei gelesi, ma a rigore non è così quando l’ultima parola sui progetti che dovrebbero finanziare, spetti ad Eni o comunque ai protocolli attuativi di cui Eni chiede ed esige un rispetto ossequioso. Diciamo che si stratta di milioni di euro che dovrebbero essere spesi a beneficio della comunità gelese. Un beneficio di cui, però, a distanza di 10 anni, questa comunità continua a non godere.
Parte di queste compensazioni dovevano servire per la riqualificazione e rifunzionalizzazione del porto rifugio. Si dice che un paio di milioncini siano stati spesi per esperire il complicato e controverso iter burocratico e che siano stati recuperati attraverso un intervento di una deputata gelese all’Ars. Un iter che non ha visto mai una fine ed un porticciolo che è rimasto insabbiato, con evidenti responsabilità in capo ai vertici politici e burocratici. Altri soldini delle compensazioni sono stati spesi per trasformare un rudere come l’ex casa albergo di Macchitella in un edificio moderno destinato ad ospitare corsi universitari, start-up e quant’altro. Ma quell’edificio, coniato ambiziosamente Macchitella Lab, è ancora chiuso. Così come resta fermo e senza sviluppo, il progetto del banco alimentare.
Ma se le colpe della politica sono manifeste, affrontando l’ultimo punto in scaletta che abbiamo lasciato alla fine perché chiude ogni discorso, quando vuole una cosa, Eni se la prende. Nel protocollo c’era scritto accelerazione iter autorizzativi per attività di upstream e downstream ed una postilla: senza questa accelerazione il protocollo sarebbe rimasto lettera morta (niente riconversione, niente compensazioni, niente di niente).
In realtà, il più grosso progetto, anche in termini di ricadute occupazionali, del protocollo 2014 era per l’appunto Argo-Cassiopea. La multinazionale energetica si è data un cronoprogramma e pur con qualche ritardo tra uno step e l’altro, ha rispettato tale cronoprogramma, ottenendo tutte le autorizzazioni necessarie. Anche innanzi una politica titubante, Eni è andata avanti, fino al traguardo.
Oggi il progetto Argo-Cassiopea è una realtà produttiva, a regime. Mentre per altri due progetti minori inseriti nel protocollo, Eni non ci ha manco provato davvero. Dopo lo studio di fattibilità promesso, non ha dato continuità al progetto del Gnl battezzandolo come antieconomico. Sul progetto di ricerca relativo alla coltivazione del guayule ha piano piano lasciato cadere la cosa. Salvo poi scoprire che a questi due progetti Eni non ha rinunciato, perseguendoli laddove alcune diseconomie sono annullate, a dispetto della decantata economia circolare.
Volendo giungere alle conclusioni, il protocollo del 2014, riletto dieci anni dopo, è stato realizzato laddove Eni ha tirato dritto, senza guardarsi alle spalle. In particolare sull’upstream e specificamente su Argo-Cassiopea, come in un tavolo di poker, Eni ha rilanciato.
La politica, messa in condizioni di controrilanciare, non ha provato nemmeno a bleffare, passando la mano e sperando in giro buono successivo. Qualcosa è pure arrivato, come le compensazioni ai pescatori ed una parte della quota di royalties. Ma dalla Regione, non da Eni. Nei rapporti di forza, non c’è partita, la competizione continua ad essere impari e tutta sbilanciata a favore della major portabandiera.