L’eccezionale dispiegamento di forze, senza precedenti per entità delle risorse, immortalato in molte immagini di grande impatto sull’opinione pubblica, un’azione di guerra dello Stato contro la criminalità organizzata di Gela, resterà nella storia nazionale delle mafie.
I 55 destinatari delle misure cautelari sono accusati di intestazione fittizia di beni, estorsione e traffico di sostanze stupefacenti, detenzione di armi (anche da guerra) ed esplosivi. 550 uomini della Polizia di Stato hanno operato al fine di eseguire le misure cautelari. Le risorse messe in campo coinvolgono tutte le Questure siciliane, squadre mobili, S.I.S.C.O., Reparti Prevenzione Crimine, Vibo Valentia, Cosenza e Siderno, Reparto Volo di Palermo, Unità Operative di Pronto Intervento di Napoli e Palermo, Servizio Polizia Scientifica di Roma.
La retata è stata chiamata “Operazione Ianus”, Giano bifronte, per motivi che proveremo ad indovinare, ed ha colto di sorpresa sia i destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare della Procura di Caltanissetta, prelevati a casa loro nelle prime ore del mattino, quanto i cittadini di Gela, i quali hanno scoperto attraverso immagini – sembrano scene di un film – che la loro città era un covo di criminali che facevano affari d’oro senza darlo a vedere.
Sorpresa giustificata? Non del tutto. Gela si è mossa sempre a meraviglia sotto traccia per molti anni, con l’eccezione degli anni a cavallo gli ’80/’90, durante i quali ci fu una mattanza a causa della faida fra le cosche. La convivenza pacifica ha del miracoloso, ma è testimoniata dal modesto numero di crimini.
La sensazione della comunità locale che alla turbolenza fosse successa un’epoca di assestamento o qualcosa di simile e che tale assestamento segnasse una perdita di potere dei boss sul territorio appare giustificata. La giungla, beninteso, non è diventata un giardino di arance e mandarini; i boss non si sono ritirati a vita privata, ma si sono adattati al nuovo contesto economico e sociale del territorio, profondamente mutato negli ultimi venti anni con lo spopolamento della città industriale. Durante le faide negli anni Ottanta/Novanta, le famiglie criminali gelesi si contendevano il succoso business degli appalti e delle estorsioni.
Perduto il mercato pubblico e privato (l’indotto del petrolchimico, i grandi appalti della Cassa per il Mezzogiorno), i boss hanno giudicato più conveniente spartirsi ciò che rimaneva, sperimentando una modalità fondata sull’immersione, che oltre a offrire i dividendi sopravvissuti (la droga, le estorsioni), avrebbe permesso l’investimento pulito dei guadagni nel Nord-Italia. Una immersione a casa propria ed una riemersione in un mare più ricco di opportunità. Non male, come pensata.
Le famiglie di mafia gelesi non si sono inventate niente. E’ prevalsa la strategia di Bennardo Provenzano, che gestiva la struttura criminale con i pizzini e la prudenza, attraverso una distribuzione accurata dei benefici derivanti dall’occupazione militare del territorio. Non più armi in spalla, ma strette di mano, parole d’ordine, coinvolgimento di colletti bianchi e politica.
Non fare “scrusciu”, questa la regola; almeno, fino a che è possibile. Ed è per questa ragione che le storiche famiglie di mafia del Gelese, i Rinzivillo, alleati ai Madonia e Provenzano, e gli Emanuello, legati ai Corleonesi di Totò Riina, e la Stidda, con i boss nativi, hanno seppellito l’ascia di guerra, e deciso la spartizione ordinata del mercato della droga in un territorio che si allunga a Licata ed a Canicattì ad ovest e Vittoria fino a Catania (approviggionamento) ad Est.
L’idea di una mafia dormiente è prevalsa sia a Gela che altrove, al pari dell’idea di uno Stato sonnacchioso, specie nei lunghi anni in cui le notti di Gela sono state rischiarate dai falò generati dagli attentati alle autovetture. Bruciare l’auto era diventato un modo sgarbato di rispondere alle malacreanze, una risposta a comportamenti irrispettosi, veniali sgarberie di amici imprudenti; in definitiva una pratica mafiosa per le modalità e l’esibizione della prepotenza, ma non necessariamente interna alle cosche.
Le teste calde non avevano licenza di uccidere sia dentro che fuori il recinto. E questo è il lato positivo, passare il segno e uscire dall’immersione non era permesso, perché avrebbe obbligato lo Stato a muoversi.
L’azione di guerra di Ianus, stando alle informazioni fornite dalla Polizia e dalla Dda, preparata con cura, è stata spiegata anche con l’urgenza di rastrellare un arsenale di armi e munizioni che avrebbero potuto fare scoppiare il finimondo. Suggerita, dunque dalla prevenzione oltre che dalla repressione.
La straordinarietà dei mezzi e degli uomini impiegati suggerisce alcune utili motivazioni: un cambio di strategia anche nel campo dello Stato la volontà di fare “scrusciu”, per avvertire i sommersi che non è più tempo e far sapere che la musica è cambiata. Si avvertiva il bisogno di mostrare che lo Stato “ora” fa sul serio. Non è il caso di farne un tema di discussione. Meglio “esserci” e fare “scrusciu” piuttosto che il contrario, cioè un’attesa di eventi legata alle investigazioni della quotidianità. A patto, naturalmente, che il kolossal inatteso mostrato ad un pubblico distratto venga servito come il piatto offerto agli indigenti, cui segue la routine che induce a stringere la cinghia.
Tutto chiaro? Lo scriviamo in modo sommesso, ad evitare fraintendimenti. Le immagini da film, che il mondo ha visto (ed apprezzato) a Gela e Caltanissetta, regalano sicurezza, ma non cambiano il sonnacchioso andazzo delle cose, prevalente nell’altro mondo, quello dell’amministrazione, della politica, dell’impresa, della cittadinanza consapevole. Di recente è stata data alle fiamme a Gela una villa confiscata ad un boss, assegnata in gestione a giovani che si occupano di tossicodipendenza, povertà ed emarginazione.
Gela, abituata ai falò e ad una consuetudine all’abuso ed all’illegalità, non ha reagito. Bocche cucite, ognuno si fa i fatti propri. Sbagliando, perché quando l’aere si fa fosco, come ricordava qualcuno, il delinquente incendia il bosco. Ed il terreno torna edificativo. Metafora che calza a pennello nella realtà gelese. Il crimine organizzato è una metastasi della microcriminalità e della marpionaggine, del voltarsi dall’altra parte o tollerare l’illegalità. Gela sembra una repubblica senza regole, che finisce con il meritare il ritorno a Mafiaville, senza…Mafiaville.
Ianus ha spedito nelle patrie galere gente pericolosa, e può farci credere che Gela sia uscita dal cono d’ombra in cui la ricca capitale del petrolio e del business, sfondo di una storia ambigua, l’aveva cacciata. Senza rimedio. Non per nulla i pianificatori della guerra sferrata ai boss, l’hanno dedicata a Giano bifronte.