La salute umana è fortemente influenzata dallo stato dell’ambiente, a sua volta strettamente connesso alle attività antropiche che caratterizzano il territorio.
Alcuni tipi di lavorazione industriale producono emissioni e inquinamento che possono avere efetti pesanti sullo stato di salute del territorio, in relazione sia a eventi “puntuali” come esplosioni o incidenti industriali (si ricordino i casi di Bophal in India e di Seveso in Italia), sia all’emissione silenziosa e continua di sostanze nocive; queste, diffondendosi nel territorio, determinano una contaminazione delle matrici ambientali (atmosfera, suolo, acque) che può aggredire le condizioni di salute delle popolazioni residenti tanto per via diretta (respirazione o contatto con sostanze inquinanti) quanto per via indiretta (contaminazione della catena alimentare).
Negli anni Cinquanta del secolo scorso la crescita del settore industriale era vista come la via necessaria per l’attivazione di percorsi di sviluppo economico; infatti, in virtù dei vantaggi di produttività che tale settore possiede sugli altri (agricoltura e servizi), esso appare particolarmente idoneo a conseguire i maggiori incrementi di rendimento per lavoratore impiegato (Kaldor, 1978), determinando per conseguenza accelerazioni del PIL e, tramite questa via, la fuoriuscita da condizioni endemiche di povertà e “sottosviluppo”.
Per questa ragione, la teoria dello “sviluppo” suggerì nel secondo dopoguerra l’adozione nelle aree depresse di politiche economiche orientate all’insediamento di “poli industriali” (Perroux, 1966). A distanza di una generazione, il sogno dello sviluppo trainato dall’industrializzazione si infrange contro una realtà che presenta per un verso crescenti riduzioni dei livelli occupazionali nei settori “pesanti” a maggior assorbimento di manodopera e, per un altro verso, la consapevolezza di un incremento del rischio sanitario a carico delle popolazioni dovuto in parte rilevante alle immissioni e agli scarichi industriali.
La realtà pone dunque in crisi un modello di sviluppo che ha vincolato il territorio, inibendo opportunità alternative per le attuali generazioni di giovani; il recupero di condizioni sostenibili (sotto un profilo sia ambientale che economico e sociale) richiede importanti interventi pubblici basati sull’informazione e sullo sviluppo di strategie partecipative (La Rocca, 2010).
Tra il 1990 e il 2004 i comuni circostanti le aree petrolchimiche siciliane di Gela, Augusta-Priolo e Milazzo sono stati dichiarati «aree a elevato rischio di crisi ambientale», con l’intento di risanare il territorio e tutelare la salute dei residenti. A oggi, i piani di risanamento sono stati esitati dalla Regione e attendono la loro attuazione.
Nell’evoluzione sociale e nel processo di gestione dei territori “a rischio” la percezione del rischio da parte delle popolazioni assume una valenza strategica. Per un verso, infatti, questa determina l’atteggiamento dell’opinione pubblica verso il modello di sviluppo imposto al territorio e obbliga sovente i decisori politici a definire strategie di recupero e di difesa della salute che altrimenti difficilmente troverebbero attuazione (a titolo di esempio, la dichiarazione di «area a elevato rischio di crisi ambientale» per il territorio di Milazzo-Valle del Mela è intervenuta nel 2004 solo a seguito delle crescenti pressioni della società civile, che ha vinto le resistenze di una classe
politica sensibile alle esigenze e agli interessi delle grandi imprese). Per un altro verso, poi, la “qualità” della percezione del rischio da parte delle popolazioni risulta fondamentale ai ini della partecipazione di queste alla formulazione e implementazione dei piani di risanamento, nonché della loro capacità di prevenzione e risposta a eventi potenzialmente dannosi in vista del contenimento delle conseguenze.
Per esempio, la consapevolezza del rischio sanitario e il supporto politico dei cittadini consente ai rappresentanti popolari di negoziare nelle opportune sedi istituzionali (i tavoli AIA o delle Autorizzazioni Integrate Ambientali) i livelli di emissioni industriali di salvaguardia, facilita l’implementazione dei piani di risana- mento e riconversione e, in ultima istanza, il recupero di condizioni ambientali sostenibili e la riduzione del rischio per le popolazioni residenti.
Di conseguenza, possiamo affermare che la percezione del rischio influenza sia la vivibilità che la capacità di “resilienza” dei territori, influenzando per questa via il benessere sociale (wellbeing) delle popolazioni (La Rocca, 2010).
Il “rischio” di un territorio è inteso come la probabilità dell’accadimento di eventi sfavorevoli che causano varie forme di “danno” al territorio stesso e alle popolazioni che su esso risiedono. La sua quantificazione economica deriva dal prodotto tra tale probabilità e la cosiddetta “magnitudo” dell’evento, definita in termini di valutazione monetaria dei suoi effetti negativi (distruzione fisica, vite perdute, salute della popolazione).
Appare evidente che un territorio è, in linea generale, esposto a una pluralità di fattori di rischio che, considerati nel loro insieme, ne definiscono il livello di rischio complessivo. Possiamo aggregare i fattori di rischio insistenti sul territorio in alcune macrocategorie: 1) rischio territoriale (assetto idrogeologico del territorio e fonti di rischio naturale); 2) rischio industriale (rischio di incidenti rilevanti, livello di emissioni e contaminazione); 3) rischio antropico (moltiplicazione dell’impatto territoriale dovuto alle caratteristiche del sistema insediativo e residenziale).
Due sono poi gli ambiti entro cui le condizioni di rischio sono passibili di provocare danni al territorio: il primo è l’ambito territoriale e patrimoniale (cambiamento violento della morfologia del territorio, distruzione di edifici e infra- strutture), il secondo quello della vita e della salute umana (morti, feriti, malattie).
Come si è già in precedenza accennato, se il rischio territoriale “naturale” (ossia legato a eventi naturali) de- riva dalla probabilità di accadimento di eventi “puntuali” di intensità e pericolosità più o meno elevate a seconda della potenza con cui l’evento si manifesta (terremoto, inondazioni, colate di fanghi...), i rischi di derivazione industriale e antropica presentano caratteristiche sia “acute” che “croniche”.
Accanto al pericolo di eventi puntuali passibili di effetti dannosi (incidenti industriali, incidenti veicolari, esplosioni e incendi, ecc.), va infatti considerato il rischio derivante dalla contaminazione ambientale dovuta alle emissioni legate sia all’attività produttiva che alle caratteristiche di mobilità della popolazione sul territorio. Quest’ultima fonte di rischio agisce in maniera sottile e, contaminando l’ambiente nel tempo in modo progressivo e quasi silente, provoca danno alla salute dei cittadini nel lungo periodo, a volte senza che ciò sia accompagnato da una adeguata consapevolezza da parte delle popolazioni.
Da questo punto di vista, il rischio territoriale è valutabile sotto due aspetti: quello “oggettivo” (parametri e informazioni che definiscono quanto più accuratamente possibile probabilità e magnitudo degli eventi sfavorevoli) e quello “percettivo” (meccanismi e caratteristiche della percezione del rischio da parte delle popolazioni residenti).
I due aspetti sono tra essi strettamente collegati, soprattutto in relazione alla definizione di strategie di intervento territoriale per la prevenzione, la riduzione e il contenimento del rischio.
La percezione del rischio da parte delle popolazioni è infatti parte integrante delle strategie di contenimento del rischio e di minimizzazione del potenziale danno. La conoscenza dei meccanismi e delle caratteristiche di percezione del rischio da parte delle popolazioni è essenziale nella determinazione di corrette e adeguate modalità di comunicazione del rischio, finalizzate al coinvolgimento delle popolazioni nelle strategie di governo del territorio.
La percezione del rischio può essere definita come «il giudizio soggettivo che, in un contesto di conoscenza limitata, la gente esprime circa l’esposizione a eventi potenzialmente dannosi, la probabilità che l’evento in questione ha di produrre danno, e le dimensioni dell’evento stesso» (Arvai, 2007).
In accordo a questa definizione, nel periodo 2007– 2008, nell’ambito di un progetto di assistenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità alla Regione Sicilia, è stata condotta una approfondita indagine sulla percezione del rischio nelle due aree petrolchimiche di Milazzo-Valle del Mela e Augusta-Priolo, con il fine di evidenziare gli aspetti strutturali e le determinanti socio-economiche della percezione del rischio da parte delle popolazioni residenti.
In questo volume vengono presentati in dettaglio i risultati dei focus group che, nell’ambito dell’indagine, sono stati realizzati a Milazzo e ad Augusta rispettivamente nel luglio 2007 e nell’ottobre 2008. Il primo aveva lo scopo di “esplorare” alcune caratteristiche socio-economiche della percezione del rischio, al fine di valutare e perfezionare il questionario costruito per la conduzione dell’indagine; il secondo quello di “restituire” alle popolazioni i primi risultati della survey, sottoponendoli a condivisione e validazione.
In particolare, i focus “esplorativi” hanno evidenziato che aspetti quali il genere, l’età, le condizioni di vita del nucleo familiare e, particolarmente, la genitorialità e la maternità possono influenzare in maniera determinante la percezione del rischio sanitario e della connessione tra industria, ambiente e salute. Le donne, infatti, risultavano più preoccupate degli uomini; gli anziani più preoccupati dei giovani e degli adulti; i poveri e i meno istruiti più preoccupati dei soggetti più agiati; i soggetti con figli (le madri in particolare) più preoccupati dei soggetti senza prole.
L’intera ricerca condotta sul campo ha valutato la consistenza di tale ipotesi, trovandovi conferma e i focus “di restituzione” hanno consentito di valutare la reale consistenza delle conclusioni raggiunte, conferendo a queste una più solida natura.
Presentare il lavoro svolto nei focus group, dunque, prima che rispondere all’esigenza di esplicitare fasi della ricerca (l’esplorazione e la validazione), che restano generalmente sacrificate rispetto all’esposizione delle conclusioni quantitative delle indagini, offre in sé un prezioso strumento di conoscenza dei meccanismi sociali di creazione della percezione del rischio e consente di recepire, a partire dalle fasi iniziali e conclusive della ricerca, l’evidenza degli elementi socio-economici che sovraintendono alla determinazione di tale percezione.
Guido Signorino - Università di Messina - (Prefazione a “Il petrolio e la paura, popolazioni, spazio e altra economia nelle aree a rischio siciliane”, di Pietro Saitta)