Quello dei tanti cervelli in fuga è un autentico esodo che ha caratterizzato l’ultimo decennio gelese.
Dalla riconversione industriale del 2014, con la chiusura della raffinazione convenzionale (petrolio) ed il passaggio alla bioraffinazione (oli esausti e scarti), ad oggi, tantissimi lavoratori sono andati via, verso altri siti eni nazionali, on shore (raffinerie, centro oli, pozzi, su terraferma) ovvero offshore (piattaforme a mare aperto), nonché esteri. Molte famiglie di questi lavoratori sono rimaste, ma molte altre sono emigrate e il decremento delle iscrizioni scolastiche lo testimonia fedelmente.
Tantissimi giovani vanno via, ma non solo i più giovani. Anche chi non è cresciuto in famiglie di lavoratori (tra diretto ed indotto) dell’ex petrolchimico, una volta diplomatosi preferisce andar a studiare e/o a lavorare fuori. E rispetto alle generazioni precedenti, quelle attuali non puntano più solo al “nord”. Guardano anche oltre i confini nazionali. A Gela non c’è lavoro e non ci sono servizi: perché restare e non provare a costruirsi una prospettiva di futuro altrove, finché è possibile? Un ragionamento che non fa una grinza, in una “città in dissesto”.
E tra questi cervelli in fuga, capita pure che, mutuando la canzone di Gianni Morandi, uno su mille ce la fa. Anzi, nel caso di Marina Baretti, dobbiamo correggerci in “una su mille, ce la fa”. Perché oggi, in una repentina escalation di risultati ottenuti, la dott.ssa Marina Baretti è "Assistant professor" di oncologia, presso il Johns Hopkins Medicine (Johns Hopkins University + Johns Hopkins Hospital), in Baltimora, attualmente impegnata nella ricerca oncologica specializzata in aree quali cancro al fegato, cancro del dotto biliare, colangiocarcinoma, epigenetica ed immunoterapia.
In una recente intervista su "Onclive", network statunitense specializzato in materia oncologica, Marina Baretti ha spiegato l'utilità in evoluzione degli inibitori “Fgfr” nel trattamento di pazienti con colangiocarcinoma intraepatico non resecabile, avanzato o metastatico, che ospita fusioni del gene “Fgfr2”. Ciò, in un campo, come quello dell'oncologa, che ha compiuto notevoli progressi nella transizione delle terapie a bersaglio molecolare, dalle fasi sperimentali all’applicazione clinica. Un po’ come i grandi passi in avanti che ha compiuto la ricercatrice gelese nella sua, peraltro, ancor giovane carriera.
«Ci sono tre farmaci – ha iniziato la dott.ssa Baretti – con risultati incoraggianti rispetto ai dati storici delle terapie basate sulla chemioterapia. Per uno di questi agenti, purtroppo, la commercializzazione è stata interrotta dall’azienda produttrice nel 2022, ma - ha sottolineato - rimangono gli altri due disponibili per i pazienti affetti da colangiocarcinoma.
Entrambi – ha proseguito - sono stati approvati dalla Fda, per i pazienti con colangiocarcinomi avanzati, metastatici o non resecabili, “Fgfr2” e “Fgfr2+”. Lo spettro delle terapie mirate all’Fgfr continua ad espandersi rapidamente, con alcuni nuovi agenti attualmente oggetto di studio, sebbene - ha concluso - permangono interrogativi sull'uso sequenziale ottimale di questi agenti mirati, nella pratica clinica».
Quest'anno, Marina Baretti ha incassato un "Cancer Research Institute (Cri)", cioè il finanziamento ad un suo progetto innovativo di ricerca, che introdurrà una nuova strategia terapeutica, estremamente necessaria per i pazienti affetti da carcinoma epatocellulare fibrolamellare (Flc), con implicazioni sul targeting del metabolismo tumorale, in altri tipi di tumore. La Flc è una forma rara e spesso letale di cancro al fegato che colpisce principalmente bambini e giovani adulti. Non esistono terapie sistemiche approvate o efficaci e i risultati clinici necessitano di miglioramenti. Il driver di questo cancro è una fusione tra il gene dell’esone 1 Dnajb1 e l’esone 2 Prkaca.
L'ipotesi generale della sperimentazione clinica condotta, è che la fusione in questione induce dipendenza da glutammina, creando una vulnerabilità critica alla terapia. In particolare, la dipendenza dalla glutammina crea un microambiente immunitario tumorale impoverito di nutrienti ed arricchito in metaboliti immunosoppressori (ad esempio ammoniaca, acidosi) che blocca la generazione di un'efficace risposta immunitaria antitumorale.
La dott.ssa Baretti guida un gruppo concentrato sullo sviluppo di immunoterapie nuove ed efficaci per le Flc ed annovera i principali esperti clinici in Flc, con competenze traslazionali nell'immunoterapia del cancro e nel metabolismo del cancro, sfruttando le principali risorse di laboratorio del “Bloomberg-Kimmel Immune Institute” e del “Johns Hopkins Sidney Kimmel Cancer Center”.
Figlia del dott. Carmelo Baretti, già primario di urologia al “Vittorio Emanuele III”, da anni in pensione, Marina Baretti si è laureata in Medicina e Chirurgia all'Università di Pisa nel 2012 ed ha vinto una borsa di studio in Oncologia medica all'Università degli Studi di Milano nel 2018. Ha poi svolto una ricerca post-dottorato ed una borsa di studio in Ematologia ed Oncologia medica presso la Scuola di medicina della Johns Hopkins University nel 2021 e nello stesso anno è entrata a far parte della facoltà di Baltimora.
Nel Maryland, la dott.ssa Baretti ha sviluppato l'interesse per la ricerca traslazionale e una crescente esperienza nella cura dei pazienti affetti da cancro gastrointestinale (Gi), collaborando strettamente con ricercatori di laboratorio per trasferire i risultati di laboratorio ai pazienti e portare nuovi composti al mercato clinico. La dott.ssa Baretti ha avuto un successo eccezionale nello sviluppo di un programma di ricerca sul cancro epatobiliare presso la Johns Hopkins, concentrandosi in particolare sullo studio dell'impatto delle terapie epigenetiche come sensibilizzatori immunitari.
Già nel 2018 aveva ricevuto il premio "Young Investigator 2018" dell'American Society of Clinical Oncology. Inoltre è stata insignita del “Career Development Award 2020”, per i programmi specializzati di eccellenza nella ricerca (Spore) dell'Md Anderson Cancer Center, sul cancro al pancreas. Questo premio è progettato per promuovere approcci all’avanguardia, al fine di migliorare il trattamento del cancro gastrointestinale e promuovere collaborazioni estese in aree critiche della ricerca sul cancro, tra scienziati di laboratorio e clinici. Oltre alla madre lingua (italiano), parla anche inglese, francese e spagnolo.