Acqua potabile ma non bevibile ...e pure salata

Acqua potabile ma non bevibile ...e pure salata

Due cittadini gelesi, i fratelli C.R. e R.R., hanno vinto la loro personale battaglia contro il colosso Caltaqua ed ottenuto il rimborso del 50% del canone idrico relativo alle bollette ricomprese tra settembre 2006 e dicembre 2009, pari quasi a mille euro, per aver pagato l’intero costo nonostante l’acqua non fosse potabile. 

A stabilirlo in via definitiva è stata la Corte di Cassazione con ordinanza pubblicata lo scorso 20 settembre. La terza sezione civile presieduta da Luigi Alessandro Scarano, relatore Pasqualina Anna Piera Condello, ha rigettato (in toto) il riscorso presentato da Acque di Caltanissetta Spa, denominata Caltaqua, avverso la sentenza del Tribunale di Gela n. 291 del 2019, pubblicata il 5 giugno di quell’anno.

A ricorrere innanzi al Tribunale di Gela erano stati i due germani che avevano precedente adito il giudice di pace. In qualità di eredi di R.N., intestataria dell’utenza idrica, i due fratelli infatti avevano evocato in giudizio Caltaqua, davanti al Giudice di pace di Gela, lamentando che l’acqua fornita non era potabile e chiedendo il rimborso della complessiva somma di euro 928,43, pari al 50 per cento del canone idrico relativo al triennio settembre 2006/dicembre 2009, ed il risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, conseguente all’inesatto adempimento.

Dal canto suo, Caltaqua non contestava la presunta non potabilità dell’acqua, ma deduceva il difetto di legittimazione degli attori, perché non titolari dell’utenza. Il Giudice di pace dichiarava il difetto di legittimazione attiva degli attori, dado ragione al gestore del servizio idrico integrato e compensando interamente le spese di giudizio.

Non contenti, i due fratelli gelesi hanno impugnato in via principale la sentenza del giudice di pace innanzi al Tribunale di Caltanissetta con ricorso in via incidentale anche di Caltaqua. In veste di giudice d’appello, il Tribunale nisseno ha condannato Caltaqua che ha impugnato a sua volta la sentenza innanzi al giudice di terzo ed ultimo grado, cioè la Corte di Cassazione, che ha però sostanzialmente confermato l’indirizzo del giudice di secondo grado.

La suprema corte ha così condannato Caltaqua al pagamento, in favore dei due fratelli (controricorrenti), oltre del rimborso, anche delle spese del giudizio di legittimità, in euro 1.600,00 per compensi, delle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, degli esborsi liquidati in euro 200,00 e gli accessori di legge. 

Si tratta di cifre irrisorie per una multinazionale come la spagnola Aqualia alla cui attività di direzione e coordinamento è soggetta Caltaqua. Perché allora resistere fino alla Cassazione? Perché il gestore di un servizio pubblico attorno cui girano milioni di euro, non può mai dare l’impressione di non difendersi da eventuali ricorsi e considera quelle legali a cui far fronte, come spese accessorie alla gestione del servizio, già preventivate.

Anzi, resistere fino all’ultimo grado tende ad allungare di molto i tempi allo scopo di tancare far desistere la controparte. Ma i due fratelli gelesi non hanno ceduto, confermando che quando la causa è giusta, Davide può ancora battere Golia. Ma se altrove questa ordinanza sarebbe stata accolta dalla comunità come una interpretazione storica della Cassazione, che fa dunque giurisprudenza, dalle nostre parti, invece, rischia di passare (e probabilmente sarà così) quasi come inosservata. Il che continua ancora e nonostante tutto a sorprenderci. 

In primo luogo, non può passare in carrozza e va rilevato che a rappresentare legalmente i due germani è stato proprio l’avv. Lucio Greco, attuale sindaco di Gela, che della battaglia contro la gestione del servizio idrico integrato in città, definito dallo stesso più volte come pessimo, aveva fatto il suo cavallo di battaglia autentico in campagna elettorale, raccogliendo in termini di credibilità la fiducia di tanti elettori.

Pochi giorni dopo il suo insediamento, peraltro, diventò virale un video che vedeva il primo cittadino inveire al telefonino contro un dirigente di Caltaqua, incitandolo ad intervenire con estrema solerzia per risolvere l’ennesima rottura di una rete, in più parti, davvero colabrodo. Poi, da allora è calato il silenzio. Chissà perché? Un giorno Lucio Greco lo spiegherà ai suoi concittadini?

In secondo luogo, torniamo a ricordare ai lettori che sebbene non citata espressamente dalle leggi tra le fonti del diritto oggettivo, la Giurisprudenza lo è a tutti gli effetti. Anzi è la principale fonte del diritto, giacché il contenuto di una legge non è tanto quello scritto astrattamente e generalmente dal legislatore, ma quello interpretato e quindi applicato al caso concreto dal giudice.

Quindi va ribadito che la legge, secondo consolidata giurisprudenza, va a dire secondo una consolidata interpretazione, stabilisce che in caso di acqua non potabile, si ha diritto ad un rimborso che può arrivare fino al 50% del canone idrico (ovvero quello di depurazione) pagato nel periodo contestato. Diverse e ripetute sono le sentenze e le ordinanze della suprema corte. 

Anche nell’ordinanza del caso in esame, si legge che ‹‹l'acqua non potabile è cosa del tutto diversa da quella potabile, essendo la “potabilità” dell'acqua una qualità avente come unico riferimento la compatibilità con l'organismo umano››. Ne consegue che l’acqua “potabile ma non bevibile” è una sciocchezza etimologica ed ermeneutica. “Potare”, dal tardo latino, si traduce “bere” e non può essere potabile un’acqua non compatibile con l’organismo umano che la beve o la assimila lavandosi ad esempio i denti. Potabile o no, il cittadino gelese percepisce l’acqua che esce dai rubinetti come non potabile.

E’ un dato di fatto acclarato che tutti, anche i più indigenti, comprano casse d’acqua per bere. In tanti comprano casse d’acqua solo per bere e casse d’acqua per altri usi alimentari, come lavare frutta, insalata e via di seguito. Con costi che lievitano a dismisura. Anche le stesse autobotti che riforniscono le zone dove non arriva acqua, ripropongono il problema. Per dirla tutta, l’acqua che passa per “potabile ma non bevibile”, è pure “salata” (in termini di costi), ma viene utilizzata da tutti solo a fini igienico-sanitari. 

Uno smacco che la comunità gelese si è oramai abituata a subire. Uno scandalo che nessuno evidenzia, che nessuno porta nei tavoli decisionali. Una volta c’erano i partiti ed a margine i sindacati pronti e fare persino a gara nel raccogliere tali istanze. Oggi movimenti ed associazioni della cosiddetta società civile si sostituiscono ai partiti ed ai sindacati, ma arrivano fino a dove possono, per poi esaurire il loro contributo fattivo, giusto per evitare di radicalizzarlo e tradurlo in protesta sfrenata ed aperta ribellione.

I termini per una class-action ci sarebbero tutti, ma rimane una chiacchiera da bar. Il dettagliante spagnolo (Aqualia in Caltaqua) magari accetterebbe di sgravare del 50% il canone di depurazione, pur di rivalersi sul grossista francese (quelli di Veolia, ex gruppo Vivendi, che hanno il 75% di Siciliacque) ma quest’ultimo, che gestisce l’acquedotto di cui è concessionario, non ne vuole sapere. Il tutto mentre la Regione siciliana (25% di Siciliacque) ha scelto di lavarsene le mani 20 anni fa e per i 40 (anni) successivi.