Sono in tutto dodici i dirigenti e responsabili Eni citati a giudizio per mancata bonifica presso il Giudice monocratico del Tribunale di Gela, Miriam D’Amore.
L’azione penale è stata esercitata dopo la chiusura delle indagini preliminari condotte dai pubblici ministeri, dott. Mario Calabresi e dott. Ubaldo Leo, relative al procedimento iscritto ad inizio del 2019 nel registro delle notizie di reato. Si tratta di manager (tre amministratori che si sono succeduti a capo di Rage) e responsabili di funzione e/o di settore che esercitavano i rispettivi ruoli durante un lungo arco temporale che parte dal 2007, alle dipendenze e per conto di Rage (otto) ed ex Syndial, oggi Eni Rewind (quattro).
I dodici sono imputati (ai sensi degli artt. 110 e 452 terdecies del codice penale) in concorso morale e materiale tra loro, nell’esercizio dei rispettivi ruoli, per non aver provveduto, pur essendo obbligati per legge (e per ordine della pubblica autorità, il Ministero dell’ambiente), alla bonifica, ripristino e recupero dello stato dei luoghi ove insiste lo stabilimento, risultati contaminati per presenza nella falda di agenti inquinanti (arsenico, ferro, alluminio, manganese, selenio, antimonio, piombo, benzene ed idrocarburi totali) al di sopra dei limiti consentiti, così come rilevato anche allo scarico dell’impianto di trattamento delle acque di falda (Taf).
Secondo l’impianto accusatorio, tale scarico veniva altresì inviato all’impianto di trattamento delle acque di scarico (Tas) in via permanente, anziché a titolo provvisorio per come era stato previsto, al fine di usufruire fittiziamente di un normativa di favore. Infine, le acque depurate venivano inviate agli impianti per il riutilizzo in misura inferiore a quanto previsto nel protocollo e non è stata riscontrata per la matrice acqua di falda, un’analisi di rischio conseguenziale al superamento dei livelli di contaminazione misurati. Altresì, sulla base delle indagini condotte dalla Capitaneria di porto e dal Commissariato, coordinate dall’allora Procuratore capo, dott. Ferdinando Asaro, nel 2021 le aree interessate furono sottoposte a sequestro ed ancor oggi l’impianto per il trattamento delle acque di falda è affidato ad un amministratore giudiziario.
Oltre allo Stato in quanto parte offesa, il Tribunale penale di Gela ha accolto le richieste di costituzione di parte civile del Ministero dell’Ambiente, del Wwf e di un paio di associazioni ambientaliste locali, “Amici della Terra” e “Aria Nuova”, entrambe rappresentate legalmente dall’avvocato gelese, Joseph Donegani: «l'importanza di questo processo – ci spiega l’avv. Donegani – risiede proprio nel fatto che stavolta il reato contestato è un delitto, con tempi di prescrizione più lunghi e pene più pesanti, anziché una contravvenzione che ha termini di prescrizione più brevi e pene molto più lievi.
Quindi, le condizioni per confidare in una pronuncia nel merito – aggiunge – ci sono tutte. Non è un caso che la Raffineria di Gela e gli imputati si sono sempre guardati bene dal fare proposte di risarcimento nei numerosi processi che si sono celebrati per vari reati ambientali, proprio perché gli stessi hanno sempre confidato – conclude - nell'assoluzione nel merito ovvero, nella peggiore delle ipotesi, in una declaratoria di prescrizione».
E’ bene precisare che in caso di condanna degli imputati, il Giudice monocratico potrebbe applicare tanto l’ipotesi di responsabilità diretta, vale a dire il ripristino dei luoghi, quanto l’equivalente indiretto, cioè il risarcimento del danno in favore delle parti che si sono costituite (Ministero, Wwf e le due associazioni ambientaliste locali). E’ parimenti opportuno precisare che in un ordinamento scritto come quello italiano, un’eventuale sentenza di condanna non può costituire un “precedente” vincolante rispetto a sentenze successive (come avviene invece in ordinamenti consuetudinari, quali ad esempio quelli anglosassoni nei quali il precedente è una regola).
Però è opinione diffusa, inutile nasconderlo, che un’eventuale sentenza di condanna potrebbe aprire un varco mai aperto in passato, in seguito a sentenze di assoluzione o estinzione del reato perché decorsi i termini di prescrizione. Del resto a destare scalpore, con annessa coda di polemiche, fu la sentenza di condanna con risarcimento del danno in favore di una concessionaria d’auto ubicata vicino allo stabilimento, perché la prossimità della concessionaria all’attività industriale, aveva causato usura e danni simili alle carrozzerie delle vetture, lasciate in esposizione nel parco auto: come a dire che i danni degli agenti inquinanti in atmosfera, sono da considerarsi acclarati alle cose, ma non anche alle persone.
Quella inquinamento e delle bonifiche, più in generale, è la grande nota dolente dell’avvento dell’industrializzazione a Gela. Già nel dicembre del 1990 l’area era stata dichiarata ad alto rischio di crisi ambientale e con il Dpr del 17 gennaio 1995 era stato approvato il Piano di disinquinamento per il risanamento ambientale, per poi arrivare alla L. 426/98, ai sensi della quale Gela diventò uno dei primi quindici siti di interesse nazionale del Programma nazionale di bonifica. Invero è solo a partire dal 2006 che il quadro normativo si fa più stringente, attraverso il D.Lgs. 152/2006 che introduce nell'ordinamento giuridico italiano, dopo l’insistente pressione comunitaria, la previsione delle procedure per la Valutazione ambientale strategica (Vas), per la Valutazione di impatto ambientale (Via) e per l'Autorizzazione integrata ambientale (Aia).
Il cane a sei zampe si è sempre difeso dichiarando di aver operato, durante tutta la sua presenza industriale a Gela, nell’ossequioso rispetto delle normative vigenti succedutesi negli anni. Nel suo sito internet, in merito al capitolo delle bonifiche a Gela, la major italiana dichiara di aver avviato il risanamento del sito gelese nel 1999. A gestirlo attualmente è la società ambientale del gruppo, Eni Rewind per l’appunto, che opera anche per conto delle “sorelle” Versalis, Enimed e Raffineria di Gela. Più precisamente si occupa degli oneri di bonifica delle aree ex Anic (17 ettari) e gestisce le attività ambientali dell’Isaf distribuite tra l’isola 9 (3 ettari) e l’ex discarica fosfogessi (52 ettari).
Mentre, la vera nota stonata alla fine della fiera, è l’assoluto mutismo in proposito della classe politica locale. L’argomento era già poco affrontato durante l’era del “pet coke”, salvo qualche caso sporadico e momentaneo, in coda ad inchieste giudiziarie ovvero giusto in occasione di alcune campagne elettorali. Con la chiusura della raffinazione convenzionale, poi, è come se la classe politica locale si fosse tolto di mezzo, finalmente, un palese imbarazzo. Nessuna dichiarazione di deputati, sindaci, nessun atto di indirizzo dei consigli comunali. E’ come se, dal 2014, per la politica locale si trattasse di un capitolo oramai chiuso. Senonché, con tutta evidenza, non sembra essere approdata alle stesse conclusioni la magistratura, almeno quella inquirente.