Una storia di 40 anni fa.
Il 21 novembre del 1983, a Gela, una folla furiosa di oltre 10 mila persone diede l'assalto al municipio, incendiando gli uffici e l'archivio della ripartizione urbanistica per protestare contro il sindaco dell'epoca, Giacomo Ventura, democristiano, alla guida di una giunta Dc-Pli con l'appoggio esterno di Psi-Psdi e Pri, che per bloccare l'abusivismo dilagante aveva emesso un'ordinanza con cui (primo in Italia) autorizzava i vigili urbani e le forze dell'ordine (quali ufficiali di polizia giudiziaria) a procedere al sequestro penale preventivo e probatorio dei cantieri abusivi. Precedentemente il sequestro era amministrativo e prima che si formalizzasse lo stop all'attività passavano settimane. Nel frattempo, lavorando di giorno e di notte, l'abusivo completava il suo fabbricato e il danno, per lo Stato, era fatto.
Con la sua ordinanza, invece, Ventura, in 15 giorni era riuscito a bloccare l'edilizia abusiva a Gela giunta a quota 60 mila vani. Ma con il settore edile si era paralizzata anche l'attività dell'indotto che ruotava attorno al fenomeno di "mattone selvaggio".
«Non sapevo – dirà poi Ventura – che i mafiosi avevano obbligato le ditte di calcestruzzo a fare cartello fissando prezzi e creando un monopolio. Fu proprio la mafia del calcestruzzo che incaricò un sicario di ammazzarmi».
In città stavano crescendo disoccupazione, malumore e rabbia. Un comitato spontaneo di lotta, con in testa proprio gli imprenditori del calcestruzzo, aveva proclamato lo sciopero generale della città per la giornata del 21 novembre e un corteo autorizzato che dal Motel Agip (oggi Hotel Sileno) avrebbe percorso via Venezia, Via Butera, via Palazzi, poi corso Aldisio e corso Vittorio Emanuele fino a piazza Umberto. Come si prevedeva, ci fu una partecipazione massiccia di manifestanti arrabbiati e rumorosi, con al seguito camion motofurgoni e betoniere che andarono a cingere d'assedio il municipio. Le forze dell'ordine erano esigue: poche decine di carabinieri, poliziotti e vigili urbani sembravano scomparire di fronte a migliaia di persone che pian piano si ammassarono nel centro storico della città.
A organizzare lo sciopero furono i titolari dei quattro impianti di produzione di calcestruzzo: Luigi Casciana, Armando Cinà, Emanuele Iacono e Angelo Marrale. Quegli stessi imprenditori che, secondo un rapporto di polizia trasmesso alla magistratura, avrebbero deciso di procedere alla fusione delle loro aziende in un'unica società la cui direzione sarebbe stata affidata al consigliere provinciale del Partito repubblicano, Giuseppe De Giulio ritenuto allora dagli inquirenti uno dei capipopolo dell'assalto al palazzo di città.
Ma lo stesso De Giulio fu poi assolto da questa accusa.
Il comitato di lotta avrebbe dovuto concludere il corteo, fino a quel momento pacifico, con un comizio in piazza. Invece la marea umana si diresse verso in municipio come se tutto fosse stato pianificato: l'assalto, l'incendio della ripartizione urbanistica e l'uccisione del sindaco. E' lo stesso avvocato Giacomo Ventura che ci racconta quella drammatica giornata.
«Alle 10, mentre stavo nel mio studio professionale di via Matrice, mi arriva la telefonata di uno che si qualifica come vigile urbano dicendo che chiamava dal comando. Mi comunica che vicino a lui c'era una delegazione di scioperanti che mi voleva incontrare e mi rassicura che la situazione è di calma assoluta».
«Decido di andare a palazzo di città, anche se quel giorno volevo evitarlo, e mi reco nella mia stanza. Fuori non c'era affatto la calma che mi era stata comunicata. Il clima invece era molto teso e capii che mi era stata preparata una trappola. Ma ormai ero lì. Passano pochi minuti e sento gli schiamazzi di una folla inferocita che si avvicina al Comune mentre da me arriva trafelato il mio capo di gabinetto, l'avvocato Gioacchino Romano, che mi grida: "Giacomo sàlvati, sàlvati, sàlvati". E lui scappa. Stavano venendo per me. Seppi dopo che avrebbero dovuto buttarmi dalla finestra in viale Mediterraneo per ammazzarmi. Mi dissero pure il nome del killer incaricato, Salvatore S., uno squilibrato fermato mentre tentava di arrampicarsi da una grondaia, che poi fu processato e assolto per infermità mentale.
«Io esco e, salendo le scale, mi reco alla ripartizione dei lavori pubblici in compagnia dell'assessore Totuccio Tilaro. Le impiegate appena mi vedono mi supplicano di andare via perché capivano che stavo rischiando la vita e loro con me. Ma non c'era una uscita secondaria. Così un primo gruppo di facinorosi (composto da giovani e da qualche forestiero) arrivò da me ma nessuno mi riconobbe. Gridavano: "dov'è il sindaco, dateci il sindaco!”.
Mi feci avanti dicendo: sono io! Non mi credettero. Replicarono: "chissà dove sarà nascosto il sindaco». Molti erano forestieri, venivano da Riesi, Mazzarino, Niscemi. La mafia aveva mobilitato i suoi scagnozzi. Per farmi identificare dissi loro se volevano vedere i miei documenti. Così, un po' spiazzati dalla mia franchezza, mi presero per le braccia e, quello che sembrava il capo, mi disse: "resti vicino a me, la proteggiamo noi, non dica niente fino a quando non arriviamo in piazza Umberto. Poi lì lei deve annunciare la sua volontà di revocare subito l'ordinanza di sequestro penale dei fabbricati perché le intenzioni sono nere».
«Annuii con un cenno della testa e pregai Totuccio Tilaro di mettere in salvo mia moglie e i miei tre figli accompagnandoli in casa dei miei suoceri.
Ero nelle mani della "Vandea". Per andare in piazza Umberto attraversammo una folla immensa che gridava, sbraitava, mi insultava tra sputi, spintoni, calci, minacce ma nessuna aggressione. Fu la mia via crucis.
In piazza mi catapultarono letteralmente con le braccia su un palco senza scaletta rimasto allestito come residuo di una precedente campagna elettorale. Da lì cercai di rabbonire la gente tra gli alti e bassi dell'umore collettivo e alla fine mi impegnai a revocare la odiata ordinanza. Mi riportarono di peso in municipio perché firmassi la revoca».
Ma intanto la calca si era impossessata degli uffici comunali e dalle finestre dell'urbanistica lanciavano in strada faldoni di pratiche vecchie e nuove che venivano date alle fiamme assieme a 2 autovetture aziendali. Il fuoco divampò anche dentro il comune. Gran lavoro per i pompieri. L'aula consiliare devastata, macchine per scrivere, arredi d'ufficio, lampadari, porte e finestre letteralmente demoliti. Alla fine saranno calcolati danni per un miliardo e mezzo di lire. La situazione, dal punto di vista dell'ordine pubblico era fuori controllo.
Il vice questore Filippo Vitale, dirigente del commissariato di polizia di Gela, aveva subito informato il questore Guerrasi della "bomba sociale" che si stava innescando a Gela. «Ma a Caltanissetta – ci racconta, il dirigente – sottovalutarono la complessità del fenomeno e la gravità del momento. «Così quando la protesta esplose – ricorda, Vitale – mi sentii annunciare dal questore l'arrivo di rinforzi da Caltanissetta e da Catania ma di irrilevante entità di fronte a 10 mila persone scatenate in piazza». Lo stesso dirigente e tre suoi poliziotti rimasero feriti.
Un gruppo di esagitati minacciò di buttare dalla finestra un agente di polizia, tenendolo penzoloni per le gambe. Pretesero e ottennero il rilascio dei dimostranti che erano stati fermati ai primi disordini.
Fu lo stesso sindaco, dopo aver firmato la revoca dell'ordinanza, a chiamare il pretore dell'epoca, Paolo Lucchese, e a supplicarlo di trovare le motivazioni giuridiche più opportune per procedere alla scarcerazione. Alle 21 tornò la calma.
Pochi giorni dopo la polizia denunciò De Giulio più altre 43 persone. L'anno successivo ne furono arrestate 51 e nove minorenni fermati. Le accuse a vario titolo furono di devastazione e saccheggio degli uffici comunali, sequestro di persona, estorsione, blocco stradale, danneggiamento e incendio doloso, invasione di edificio pubblico, resistenza, oltraggio e violenza a pubblici ufficiali.
(1ª parte – continua)