Nell’ambito delle nuove misure restrittive nei confronti della Russia, a seguito della crisi bellica in Ucraina, dal 4 giugno 2022 l’Unione europea ha previsto il divieto di acquistare, importare o trasferire, direttamente o indirettamente, petrolio greggio o prodotti petroliferi.
A confermarlo è stata la stessa “Agenzia delle Dogane”, con avviso del 9 giugno. La domanda sorge spontanea e ce la siamo posta un po' tutti: cosa comporta per l'Italia l'embargo al petrolio russo? La risposta, dati alla mano, ce l'ha fornita il presidente del sindacato datoriale “Unem” (Unione energie per la mobilità), Claudio Spinaci: «a differenza del gas – ha rivelato Spinaci - dalla Russia ci arriva solo il 10% del greggio che importiamo».
In una sorta di capovolgimento di prospettiva, pertanto, la diversificazione energetica che caratterizza il nostro paese, cioè la “capacità” di raffinazione italiana che può contare su un ampio numero di fornitori, ci tutela da eventuali stock, al pari di un'ipotetica autosufficienza. L’ultima indagine relativa al 2021 ha attestato che sono stati 22 i Paesi da cui l’Italia ha importato addirittura 72 diversi tipi di greggio. E' l’Azerbaijan il principale fornitore di greggio dell’Italia col 23%. Seguono la Libia con il 19%, l’Iraq con il 14%, la Russia con il 10% e l’Arabia Saudita con il 9,6%. Ben al di sotto gli altri paesi, con la Nigeria al 5%, la Norvegia ed i paesi americani (Usa, Canada, Brasile) al 4%, l'Algeria e altri paesi africani (Conco, Camerun, Tunisia, ecc.), il Kazakistan e l'Egitto al 2%, paesi europei all'1% (Uk, Albania), ed altri ancora sotto l'1%.
Ne derivano almeno un paio di considerazioni imprescindibili. La prima è che la crisi ucraina torna a sbatterci in faccia un dato che si conferma spietato ed inoppugnabile: in questa fase di transizione energetica la risposta "green" non è ancora sufficiente ed esaustiva, in quanto la domanda di imprese e consumatori finali dipende ancora fortemente - e presumibilmente anche per l'immediato futuro - dalle energie fossili. Per questa via, l'approccio alla raffinazione è essenziale. La decarbonizzazione va portata avanti, ma nel frattempo e contestualmente le tecnologie di raffinazione petrolifera vanno per ora sviluppate, per essere poi un giorno bandite e non già da adesso vietate.
La seconda considerazione è che sebbene non temiamo stock, l'embargo petrolifero alla Russia comporta alcune criticità che vanno da quella speculativa dell'incremento dei prezzi dei carburanti a fronte di una decrescita dei prezzi petroliferi al barile, a quella della tenuta della più grande raffineria italiana, vale a dire il polo di Priolo Gargallo controllato dalla russa Lukoil, la cui capacità equivale circa al 22% della capacità di raffinazione italiana. Le conseguenze occupazionali ed economiche sono esorbitanti, poiché ballano diecimila posti di lavoro in un’area industriale che pesa per il 51% nel calcolo complessivo del Pil relativo al Libero consorzio di Siracusa.
Il rischio di chiusura della raffineria aretusea ha peraltro messo in circolo una serie di voci incontrollate. Si è arrivato persino a dire che per ovviare a tale chiusura, si sta valutando l'ipotesi di riapertura in deroga provvisoria di vecchie raffinerie convenzionali come quella di Gela. Ipotesi remota quest'ultima e dallo scarsissimo fondamento anche se non possiamo affermare come impossibile. Diciamo che Eni dovrebbe reinvestire non poco, per riassicurare almeno una delle due linee e con una centrale alimentata solo a gas (e non pet-coke). Ma a questo punto, laddove Gela e Porto Marghera si sono portate molto avanti nella narrazione “green”, sarebbe molto più logico oltre che più convenente, potenziare le raffinerie ancora in marcia, come Taranto, Livorno e Sannazzaro, senza considerare Milazzo (al 50% con Q8).
Quanto al gas, infine, il relativo embargo a Mosca postula ragionamenti diversi, puntando più alla produzione a “casa” invece che affidarsi ad una diversificazione di forniture. Nel gas, la Russia pesa per oltre il 40% e non il 10%. Lo sfruttamento dei due pozzi Argo e Cassiopea sono una necessità impellente e non si capisce perché si stia perdendo ancora tempo. Si tratta di gas proprio, grazie ad un impianto da realizzare nella terraferma all'interno dello stabilimento di Gela, a due passi dal greenstream (gas) libico. Nei mesi scorsi il Governo era sembrato propenso ad attuare una politica di raddoppio, quantomeno, della estrazione di gas dai giacimenti, con una cabina di regia che garantisse tempi brevi, sebbene più convincente sarebbe la tesi di un commissario straordinario come per il ponte “Morandi” a Genova. E sul modello del ponte “Morandi”, relativamente al progetto Argo-Cassiopea, è recentemente tornato ad insistere anche il segretario generale della “Cisl Ag-Cl-En”, Emanuele Gallo.
E' dell'altroieri, del resto, la notizia dell'accordo di partnership tra QatarEnenrgy ed Eni per la creazione di una nuova "Joint Venture" (QatarEnergy 75%; Eni 25%) che deterrà il 12,5% di un progetto a più ampio respiro (Nfe), di cui fanno parte 4 mega treni Gnl con una capacità combinata di liquefazione pari a 32 milioni di tonnellate all’anno. Ciò consentirà di aumentare la capacità di esportazione di Gnl del Qatar, sulla base di un accordo con durata di 27 anni: «questo accordo è una significativa pietra miliare per Eni - ha dichiarato l'amministratore delegato Eni, Claudio Descalzi - e si inserisce nel nostro obiettivo di diversificazione verso fonti energetiche più pulite e affidabili, in linea con la nostra strategia di decarbonizzazione. Eni è pronta a lavorare con QatarEnergy su questo progetto per contribuire positivamente ad aumentare la sicurezza dell'approvvigionamento di gas a livello mondiale». Dunque un accordo che ci potrebbe consentire di svincolarci dalla dipendenza a Gazprom, ma proiettato nel futuro, non nell'immediato.