Un territorio. Mille facce. Centomila sfumature. Una città bella ma sospesa, solidale ma non esente da deformità e complessità, affascinante e, allo stesso tempo, antipatica.
Una dimensione intessuta di case, volti, espressioni, che ha sia il sapore dell’arancino appena sfornato, sia della maldicenza più remota.
Poi, cari lettori, fate voi. Chiamatelo pettegolezzo, cattiveria gratuita, “sparrari” (dovendo inseguire un certo “filone” dialettale) ma qualcosa, ogni tanto, si vede e si sente.
Anch’io sono Gela. Anzi, gelese.
Prossimo ai 39 e vicino ai 40. Età magica, diranno alcuni. Ne’ bambino, né anziano. Tutto ancora da dare, scoprire, esplorare, realizzare.
Complicato sapere “cosa”, ad ogni modo. E vivo qui, nel paese delle tante contraddizioni, tra cittadini che protestano per i troppi rifiuti ammassati, le bollette idriche salate, i conti che non tornano e del lavoro che non c’è quasi mai. Già, il lavoro. Una meteora luminosa, che spesso arriva per il parente fortunato o l’amico che è tutto tranne che “amico”.
Insomma, parliamo comunque di Gela, ovvero del tempio sacro del Vangelo consegnato alla folla degli ultimi che devono tuttavia aspettare il turno riservato ai primi.
Una Gela strana, che possiede una storia, un percorso e un passato incredibili, ma poi diventa preda incessante di pregiudizi, razzismi, omofobie e si ritrova ad avere paura di tutto, forse anche di se stessa. Una Gela increspata di occhiate furtive, sotterfugi, malizie e invidie, costantemente pronte a danneggiare l’altro solo perché ingenuo, indifeso o sensibile.
Un paese dove chi è omosessuale è visto ancora come “malato” e non come individuo che ha una semplice “variante” del comportamento affettivo, peraltro riconosciuta come “normale” dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) da parecchi anni.
E’ la Gela dove il diversamente abile non riesce ancora a sentirsi pienamente persona, nonostante il prezioso impegno di numerose associazioni di volontariato che si battono per garantirgli un’esistenza sana e dignitosa, attraverso azioni umane e generose capaci di superare disposizioni e normative.
Città dei racconti, delle chiacchiere di quartiere, delle risse di cortile.
Città con una forte impronta politica che si adopera per costruire, progettare, lanciarsi verso il bene comune. Atto lodevole e giusto.
Ma, in mezzo a “quel bene comune”, avanza puntualmente la disperazione di famiglie senza soldi né casa, le difficoltà economiche di molti pensionati, le lacrime di molte madri che vedono in frantumi l’avvenire dei figli…purtroppo, per il nostro territorio, quello che si crea non è mai abbastanza.
E ci si ritrova con un contesto urbano silenzioso, apatico, inerte.
Allora, che fare? Come agire?
Si può solo decidere di scendere in campo e a testa alta, per dire “no” all’indifferenza e alla rassegnazione di un sistema sociale non privo di lati spinosi.
Manca un unico verbo: ricominciare. A denti stretti, ma con una nuova energia dentro l’anima.
Ricominciare. Per non illudersi e per vivere. Da veri cittadini.