Nuvole grigie, sentimenti sbiaditi e tanta stanchezza. Basta un attimo per descrivere un pensiero,
uno stato d’animo o semplicemente il vortice di un brusco risveglio, dentro una città che ha continuamente lamentato scarse prospettive occupazionali e sperato in possibili scenari di rivalutazione.
Gela. Grande ma fragile. Intelligente ma tardiva.
E io qui, immobile, all’interno di una parete sociale fredda come il ghiaccio, senza amici veri, senza consigli, con mille paure e qualche lacrima di troppo.
All’inizio ho cercato di reagire e provare a modificare il mio programma di regole, attenzioni e indicazioni, ma mi sono ritrovato più sbagliato di prima.
Succede, capita. Vero, è possibile.
Come in quest’ultimo mese, dove, tra lo stress ossessivo di ritmi frenetici, conflitti familiari monotoni e la perdita consistente di dieci chili di peso, non ho trovato agganci di umana comprensione. In fondo, chiedevo una parola di conforto. Almeno una. Nulla. Un “file” di emozioni negative e logore, ingabbiate in un disagio che non potevo scaricare su altri.
Non ho cercato colpevoli. Ho desiderato trovare soltanto risposte che, puntualmente, non sono mai giunte. Un nuovo inizio e un vecchio copione.
Interrogarsi all’infinito, però, non serve.
Ho guardato gli estremi di una politica arrabbiata, i rifiuti ammassati per le vie dei quartieri (segno di un equilibrio civico spesso assente) e le numerose aggressioni verbali di gente che non ho mai conosciuto, confuse con i silenzi di chi ha immaginato un futuro reale e non da commedia romantica.
Osservare e pensare. Per chi? Per cosa?
Ciò che percepisco adesso è un frammento di Gela vago e triste, che non racconta nulla, ed è racchiusa in un boato di profonde divisioni. Dopo decenni di buoni propositi e tentativi di trasformazione, sento il peso allo stomaco di tutto il mio carico esistenziale, amalgamato da una scia di giudizi facili, frasi scontate e saluti negati. Non è una terra per persone sensibili, questa. Per strada, poi, ti misuri con qualsiasi forma di ironia disperata o omofobia costruita. Soggetti pronti a ridere di questo o dell’altro. Individui con artigli ben affilati, pronti a squarciare o biasimare i tuoi progetti di uomo o lavoratore. Già, progetti. Li chiamo così, perché definirli “sogni” sembrerebbe quasi ridicolo. E poi, il tempo dell’innocenza è terminato.
Gela è diventata il territorio dei perfetti, di quelli che sono riusciti a cavalcare traguardi ambiziosi, a dispetto di una classe operaia che ha continuato ad elemosinare lo stipendio o il pacco degli alimenti. Sazi o affamati, forti o deboli. La vita offre sempre un conto da pagare.
Gela ambigua, salmastra, inadeguata. Il territorio immacolato con l’arma del pettegolezzo in pugno. Mi chiedo se sia ancora possibile definire “vergognoso” tutto questo.
E’ la folla che vanta storia e cultura e poi ti guarda dall’alto in basso.
La massa dei “bravi” che si distingue e crea differenza.
Bravi a pregare, a celebrare, a credere, ma senza un prossimo accanto. Bravi davanti alle manifestazioni, ai cortei, alle riunioni, ma senza il ricordo di chi è dimenticato, amareggiato, “tagliato fuori”. Bravi, ma mai troppo convincenti. E poi rimango fermo ad aspettare, frequentemente additato come colui che “vede il marcio anche dove non c’è”. Dunque, per qualcuno, il nostro è un paese impeccabile.
Ma siamo proprio sicuri?
Chissà, magari sbaglio o esagero. Tuttavia, non è la fame dovuta all’assunzione di poco cibo che mi preoccupa. Mi terrorizza la fame di affetto, la mancanza di relazione, di dialogo. Non si parla. Non ci si rimprovera nulla. Si assiste al gioco delle “carte rimescolate”, con il dilemma di una gioventù spezzata e l’agitazione di chi è pronto ad ottenere sempre l’ultima parola, tra litigi, malumori o sentenze. La corsa per essere primi, l’affanno di emergere ed essere al di sopra di ogni aspetto della realtà quotidiana. Un “io” senza “noi”, ovvero una dimensione senza logica.
E’ la Gela del “cinque” in pagella.