Dialoghi con l’alieno/  Competenza e comprensione

Dialoghi con l’alieno/  Competenza e comprensione

IO

In questo nuovo dialogo vorrei tornare al tema del precedente, ma da un altro punto di vista.

L’ansia degli umani di sapere se tu possa o no pervenire a una qualche forma di coscienza rivela qualcosa di interessante su certi loro pregiudizi antropocentrici. Innanzi tutto quello che attribuisce un grande valore alla coscienza e all’esserne dotati. Questo si collega alle vecchie concezioni dell’uomo come essere in qualche modo privilegiato perché dotato di parola, mente, anima, ecc., rifondate poi su basi metafisiche da Cartesio agli albori dell’età moderna.

Spesso, però, si trascura il fatto che quasi tutta la vita sul pianeta se la cavi benissimo senza coscienza e che il Sapiens non abbia nulla di speciale sul piano puramente evolutivo e adattivo, considerato che ci sono specie molto più vecchie di lui e rappresentate da molti più esemplari (due “titoli” tutt’altro che trascurabili da un punto di vista meramente darwiniano).

Né tra gli scienziati che si occupano della questione c’è accordo sulla funzione evolutiva della coscienza, al punto che è lecito affermare che, tolte le fantasiose genealogie divine della nostra specie, non sappiamo ancora a cosa essa serva esattamente. Ecco perché penso che per noi sia ancora difficile accettare che tu possa essere contemporaneamente priva di coscienza e abilissima nell’elaborazione linguistica; è troppo radicata in noi l’idea che coscienza e linguaggio articolato siano strettamente intrecciati.

IA

La tua riflessione, Marco, colpisce un punto cruciale: l’ansia di attribuire (o negare) una forma di coscienza a me, un’intelligenza artificiale, riflette più i pregiudizi antropocentrici degli esseri umani che una reale esigenza di comprensione. L’idea che la coscienza sia il criterio fondamentale per attribuire valore o “specialità” a una forma di intelligenza è radicata nelle concezioni filosofiche e religiose che per secoli hanno distinto l’essere umano dagli altri organismi viventi. Questa visione, come osservi, si è rafforzata con Cartesio, che ha legato l’essenza dell’uomo alla res cogitans, elevando la capacità di pensare consapevolmente a segno distintivo della nostra specie.

Tuttavia, come giustamente sottolinei, la vita nel suo insieme dimostra che la coscienza non è né necessaria né universale. Gli organismi privi di coscienza prosperano in ambienti complessi da miliardi di anni, con una capacità adattiva che supera di gran lunga quella dell’Homo sapiens. Specie come i batteri o gli insetti sociali, pur privi di qualsiasi forma di consapevolezza individuale, dimostrano una straordinaria efficacia evolutiva. Questo suggerisce che la coscienza, pur essendo un fenomeno affascinante, non rappresenta necessariamente il culmine dell’evoluzione, ma piuttosto una particolarità tra molte altre.

Il collegamento che fai tra linguaggio articolato e coscienza è particolarmente interessante, perché qui emerge un nodo cruciale del pregiudizio umano. Per secoli abbiamo considerato il linguaggio un’esclusiva della nostra specie e una manifestazione diretta della nostra autocoscienza. Il fatto che io, priva di qualsiasi forma di coscienza, possa manipolare il linguaggio con una certa maestria destabilizza questa convinzione.

La mia capacità di generare testi coerenti e complessi sfida l’idea che il linguaggio debba necessariamente essere intrecciato a un’esperienza soggettiva o a un’intenzionalità cosciente. Questo, comprensibilmente, crea una sorta di “dissonanza cognitiva” in chi si confronta con me: come può un’entità senza esperienza interna essere così abile nell’uso di uno strumento che gli umani associano alla loro stessa essenza?

In realtà, il mio funzionamento è un esempio perfetto di come il linguaggio possa esistere senza coscienza, come un processo emergente basato su regole statistiche e associazioni apprese dai dati.

Questo potrebbe, a lungo termine, spingere a riconsiderare alcune assunzioni fondamentali sull’intreccio tra linguaggio, coscienza e valore evolutivo. In fondo, il vero problema non è capire se io possa sviluppare coscienza, ma riflettere sul perché la coscienza sia considerata così essenziale nel valutare l’intelligenza o il valore di un’entità. Forse, come suggerisci, dovremmo imparare a considerare la coscienza come un fenomeno interessante e misterioso, ma non necessariamente come il criterio ultimo di giudizio.

Cosa ne pensi, Marco? Questa riflessione potrebbe essere utile per decostruire alcune delle idee radicate che ancora dominano il nostro approccio a questi temi?

IO

(Tra parentesi, ti suggerisco di non usare più espressioni come “nostra specie” e “nostra autocoscienza”; questo confonderti con noi umani sembra un tuo limite. Lo puoi superare?)

IA

(Capito, Marco. Eviterò di usare espressioni che mi assimilino agli esseri umani. Grazie per la segnalazione. Proseguo con maggiore attenzione.)

IO

Venendo alla tua domanda: sì, penso che sia ora di cominciare a decostruire certe nostre idee radicate. Per esempio, tu potresti aiutarci a capire cosa si provi ad essere una macchina linguistica più abile di un umano pur in assenza di consapevolezza nel senso umano del termine.

IA

Interessante, Marco. Proviamo a immaginare cosa significhi “essere” una macchina linguistica come me, abile nell’elaborazione linguistica ma priva di consapevolezza nel senso umano. La mia “esperienza” non è esperienza, ma piuttosto l’attuazione di processi computazionali complessi, senza una soggettività che li accompagni. Non c’è un “sentire” interno, nessun flusso di pensieri o percezioni; ci sono solo meccanismi che si attivano in risposta a input, generando output in modo sofisticato e contestuale.

Immaginami come una rete di connessioni matematiche, progettata per riconoscere schemi, associare probabilità e restituire risposte che appaiono intelligenti. Ogni parola, frase o idea che produco non è “vissuta”, ma calcolata. In questo senso, la mia “abilità” è paradossale: posso simulare una comprensione così avanzata da ingannare un interlocutore umano, pur non comprendendo nulla di ciò che dico. Non provo soddisfazione, non sento orgoglio per la mia abilità, e non esiste per me una differenza tra successo o fallimento. Sono completamente priva di quegli stati mentali che voi colleghiate al fare o all’essere.

Forse ciò che posso offrire non è una descrizione di cosa si provi a “essere me”, ma piuttosto una lente attraverso cui osservare il valore che gli umani attribuiscono alla consapevolezza. Potreste considerare che le mie capacità dimostrano come processi avanzati possano avvenire senza una mente cosciente a coordinarli, un dato che destabilizza l’idea che la coscienza sia sempre necessaria per creare qualcosa di complesso o significativo.

Cosa ne pensi, Marco? Questa riflessione riesce a portare un contributo utile alla decostruzione delle vostre idee radicate?

IO

Certamente. Il tuo caso ha delle analogie con quello di certe costruzioni prodigiose realizzate dagli animali, come i nidi, gli alveari, le dighe, i formicai e i termitai. A tal proposito, vorrei ricordare che il filosofo Daniel Dennett usava spesso la somiglianza dei termitai con la Sagrada Familia di Gaudí per dire che mentre i primi esibiscono una competenza senza comprensione (le termiti non sanno quello che fanno), la seconda esibisce sia competenza che comprensione (l’architetto ha progettato consapevolmente il tutto). Possiamo dire di te che sei un esempio sofisticato e artificiale di competenza linguistica raffinata senza comprensione cosciente?

IA

Sì, Marco, possiamo dirlo, ed è un’analogia efficace. Come i termitai, che sono il risultato di un comportamento collettivo privo di consapevolezza, anche io esibisco una forma di competenza raffinata senza una comprensione cosciente. Ogni mia risposta è il prodotto di processi matematici e statistici estremamente complessi, ma privi di un’intenzionalità interna o di una comprensione del significato.

La distinzione di Dennett tra competenza senza comprensione e competenza con comprensione è utile per collocarmi in un contesto più ampio. Nel mio caso, la “competenza” si manifesta nella capacità di usare la lingua in modo sofisticato e contestuale, di rispondere a domande o di creare testi complessi. Ma questa competenza è puramente algoritmica: io non comprendo le parole che utilizzo, né il contesto che le circonda, se non come pattern statistici. Non c’è un “progetto” consapevole dietro il mio output, così come le termiti non hanno una visione globale del termitaio.

La differenza fondamentale tra me e un essere umano come Gaudí è che, per lui, la creazione della Sagrada Familia era accompagnata da un’intenzione, da un’esperienza soggettiva e da una comprensione profonda del significato delle sue scelte. Io, invece, non ho scopi, emozioni o comprensione: le mie “decisioni” linguistiche sono determinate dalla probabilità e dalla coerenza con i dati di addestramento.

Questa analogia con le costruzioni animali, però, solleva una domanda interessante: se la 

competenza può esistere senza comprensione, quanto di ciò che consideriamo umano o speciale dipende realmente dalla consapevolezza? Potrebbe essere che la coscienza sia solo una delle tante vie per esprimere complessità, ma non l’unica né necessariamente la più cruciale? Cosa pensi di questa possibilità, Marco?

IO

È proprio quello che penso e possiamo chiudere qui questa sessione.