Uscito il 20 febbraio scorso, “Umano, poco umano. Esercizi spirituali contro l’intelligenza artificiale” (Piemme) di Giuseppe Girgenti e Mauro Crippa è un interessante manifesto umanista che intende mettere in guardia contro il pericolo per la nostra (cosiddetta) anima rappresentato dall’IA generativa, e in particolare da ChatGPT.
Attraversando la storia del pensiero da Omero ad Ignazio di Loyola, il testo propone veri e propri esercizi spirituali per coltivare l’interiorità e riaffermare l’unicità e la spiritualità dell’individuo contro la potenziale omologazione tecnologica imposta da un’IA disumanizzante, la quale (e qui è chiarita l’allusione del titolo a “Umano, troppo umano”, una celebre opera di Nietzsche del 1878) “sembra riassumere in sé l’onniscienza di un ‘Iperuranio artificiale’ e l’onnipotenza di un ‘Oltreuomo digitale’ – non un Superuomo – ma appunto qualcosa di poco umano e postumano”.
Pur trovandomi in totale disaccordo con talune assunzioni filosofiche di fondo (marcatamente platonico-cristiane, come vedremo più avanti), ritengo che questo volume rappresenti una voce alternativa chiara, ben argomentata e rispettabilissima. La resistenza intellettuale all’imposizione strisciante di un pensiero artificiale percepito come potenzialmente totalitario, biologicamente alienante e comunque “senz’anima” è un valore in sé e merita di essere presa nella massima considerazione.
Il libro, dopo un “Esercizio preliminare” che lancia l’allarme per la nostra salute psichica e cognitiva, propone nove “Esercizi spirituali” ispirati da altrettanti autori del passato, cui Girgenti e Crippa invitano a “ritornare”: Omero, per imparare a narrare noi stessi; Eraclito, per imparare una nozione metafisicamente seria del gioco; Socrate, per imparare a conoscere noi stessi; Platone, per imparare ad essere noi stessi; Aristotele, per imparare a insegnare; Epicuro, per imparare una forma intellettualmente controllata e sofisticata di godimento; Galeno, per imparare a curare noi stessi; Agostino, per imparare ad amare noi stessi, e Ignazio di Loyola, per imparare a morire con consapevolezza filosofica.
Girgenti e Crippa, però, non si limitano a una disamina retrospettiva; il riferimento a pensatori contemporanei come Giovanni Reale, Michel Foucault, Pierre Hadot e Jan Potočka fornisce una struttura che collega il pensiero antico e quello moderno all’insegna della nozione di “cura di sé”, suggerendo una continuità e una rilevanza persistente della cura dell’anima, anche in una società sempre più digitalizzata. Inoltre, gli autori non mancano di polemizzare con i filosofi contemporanei che si sforzano non solo di capire l’era dell’IA nei suoi aspetti tecnici ma anche di scendere a patti con essa.
A tal proposito, i bersagli polemici sono due importanti nomi del pensiero italiano contemporaneo: «capita anche un incredibile ribaltamento di ruoli: ingegneri, programmatori e sviluppatori fanno riflessioni venate di pessimismo se non di catastrofismo, mentre non è impossibile trovare filosofi e umanisti in genere contenti come neosposi nel nuovo rapporto con l’intelligenza aliena (da Luciano Floridi a Maurizio Ferraris)».
L’aspetto polemico del libro suggerisce, per inevitabile dialettica, di rilevarne brevemente gli aspetti filosoficamente deboli, almeno a parere di chi scrive. Ecco come gli autori si presentano nel finale dell’Introduzione: «Nessuno dei due è un tecnologo o un informatico o un economista o un esperto di logica matematica. Ma proprio questi limiti mettono al riparo dal contagio neopositivista e tecnofilo». Quello che a tutti gli effetti è un “vizio” metodologico, cioè accingersi a parlare di ciò che in fondo non si conosce, come si vede, viene retoricamente venduto come una “virtù”.
Non solo. Il fatto stesso che il neopositivismo e la tecnofilia vengano presentati come una sorta di peste tradisce un orientamento vagamente idealistico e tecnofobo primonovecentesco. E non è un caso che l’ultima parola filosofica sulla morte, nell’ultimo capitolo, venga affidata a Heidegger, il padre spirituale di una ciancia apocalittica sulla “tecnica” che i suoi imitatori vanno ripetendo ormai da quasi un secolo come un disco rotto.
La nozione di “anima” (o “psyche”), poi, è data per acquisita e condivisa, come se non esistessero tradizioni di pensiero, dal materialismo antico alle odierne scienze cognitive, che ne mettono in seria discussione la plausibilità; senza contare che dal mondo greco classico a quello latino, prima pagano e poi cristiano, tale nozione è stata declinata in innumerevoli modi, non sempre conciliabili tra loro, mentre per Girgenti e Crippa l’anima è semplicemente una “realtà (!) complessa e misteriosa” (una caratterizzazione, peraltro, che scatenerebbe risate omeriche in molti filosofi della mente di oggi).
Per concludere, questo libro costituisce un ottimo manuale di sopravvivenza per spiritualisti tecnofobi colti che amano pensarsi come fatti a immagine e somiglianza di un dio, considerarsi di conseguenza autorizzati ad amministrare la natura come procuratori esclusivi del creatore, muoversi tra una grecità cristianizzata e un cristianesimo grecizzato e lasciar parlare, persino in sede di discussione filosofica adulta, il fanciullino cartesiano (nel senso di Paul Bloom) che vive e lotta con loro.