Perché leggere poesia? e perché scriverne? e perché Dante?
Gandolfo Cascio (nella foto), che insegna in Olanda Letteratura italiana e Traduzione all'Università di Utrecht, si industria di rispondere a queste domande nel saggio pubblicato quest’anno, 2021, a Venezia da Marsilio, dal titolo Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti.
Dante è per questo studioso un amore d’antica data, che ancor dura, come testimonia anche l’Observatory on Dante Studies, il progetto di ricerca che in quell’università il professor Cascio conduce.
Il saggio è costruito su quattro capitoli.
Il primo (“Con gli amici, nello studiolo, per mare e su per la montagna”), commenta il quadro di Vasari Sei poeti toscani illustri, dipinto nel 1544. È un’immagine che dice, sì, la posizione di primo piano di Dante tra i letterati toscani, ma anche l’affermarsi di un gusto diverso e di altri modelli. Vi si riconnette idealmente il terzo capitolo “Dante’s Afterlives”, cioè la fortuna di Dante nei secoli, e la nascita del culto di Dante dal XIX secolo fino a noi.
Ma é il secondo capitolo a contenere il nucleo centrale del saggio. Ed è il quarto capitolo a suscitare viva emozione in chi legge.
Il secondo capitolo (“Un’ idea di letteratura nella Commedia”) , titolo continiano, dichiara le ascendenze teoriche dello studioso, da ricercare nella critica stilistica, «procedura sicura e conveniente (...) perché reclama l’esperienza e l’esperimento, (...) perché eccita tanto l’intelligenza della mente quanto quella sensuale».
Analizzando dunque i versi della Commedia il saggio osserva che qui Dante "squaderna" i temi che ha discusso lungo tutta la sua vita con gli amici poeti, stilnovisti e non, d'accordo con lui o no. Insanabile la rottura con Guido Cavalcanti, il primo dei miei amici, narrata nell’indimenticabile decimo canto dell’Inferno. Intensi gli incontri in purgatorio con gli amici, da Casella e Sordello, fino a Guido Guinizelli e Arnaut Daniel sull’ultima balza della montagna, dove ci si monda dal peccato di lussuria nel fuoco che affina.
Non mancano, ovviamente, i poeti antichi latini, primo fra tutti Virgilio, e poi Stazio, anello di congiunzione tra latinità e cristianità: essi costituiscono il modello perfetto cui la nuova poesia volgare vuole ispirarsi, ma da cui rivendica autonomia ed emancipazione.
É il quarto capitolo, infine (“Conversazioni in esilio”), a suscitare nel lettore la commozione, È il sentimento del secolare dialogo tra i libri, dialogo che non ha fine, né conosce barriere di tempo e di spazio. È così che conversano tra loro, suggerisce lo studioso, Ovidio e Dante e Mandel’štam. Tutti e tre sono accomunati dall’esperienza dell’esilio, la condizione di chi si trova fisicamente al di fuori della patria, privato dal proprio status sociale.
Le osservazioni sull’esilio di Ovidio e di Dante, esili diversi, dolorosi, ma civili entrambi, finiscono per evidenziare l’inciviltà dell’esilio del terzo, di Mandel’štam. Si allunga formidabile l’ombra del lager, cifra distintiva del XX secolo, il secolo-canelupo, tempo che più di tutti ci induce a dubitare del valore conoscitivo e morale della letteratura. Eppure...
Eppure ci è sempre caro Ser Brunetto, evocato in limine, che riafferma il valore eterno dell’opera sua, «oltre ogni assennatezza».
Ferdinanda Cremascoli (www.italianacontemporanea.org)