Nato a Terranova di Sicilia, classe 1920, coltivatore diretto, Emanuele (nella foto) viene chiamato per prestare servizio militare ed è in Russia dal 1941:
è uno dei circa 250.000 militari italiani che Benito Mussolini ha deciso che devono morire per avere la possibilità di sedersi al fianco di Adolf Hitler, nel momento in cui le armate tedesche annienteranno l’Armata Rossa e, con essa, l’Unione Sovietica.
E’ una questione di qualche settimana, un mese - si pensa a Berlino e a Roma- perché niente sembra poter fermare l’avanzata delle truppe tedesche nell’Unione Sovietica, da Nord a Sud, dal Baltico all’Ucraina: è così che Emanuele si viene a trovare di stanza con i suoi commilitoni in uno sperduto paesino dell’Ucraina.
I militari italiani, insieme a rumeni, ungheresi, bulgari, hanno il compito di presidiare il fronte sud dello schieramento italo-tedesco mentre il grosso dello sforzo bellico della Wermacht è concentrato al centro, in direzione di Mosca.
Trascorre una settimana, due, tre, un mese, due mesi…i militari italiani cominciano ad essere sempre più in difficoltà: gli armamenti inadeguati, la mancanza di vestiario adeguato, di medicinali, i pidocchi, gli spostamenti pericolosi, la scarsezza del cibo, le trincee scavate alla men peggio, dove non trovano riparo dall’inclemenza del tempo, le piogge, il fango, il vento gelido, “a ddraunara”, la neve, il gelo.
Il gelo: un nemico implacabile contro il quale i soldati italiani non hanno armi per difendersi e sono soggetti ad ogni tipo di sofferenza. Emanuele è disperato come tutti i suoi compagni ed ha trovato un po' di sollievo in una casa del paese dove una donna, di nome Nadia, come una sorella, gli offre di tanto in tanto del cibo, il calore di una casa modesta e si presta a lavargli degli indumenti.
Una sera, mentre Emanuele stava in quella casa “arrunchiatu comun na ranocchia” e teneva sulle ginocchia la “malenka”, la bambina di Nadia, rientra il marito di lei; un uomo alto, robusto, campione di lotta greco-romana.
Vede il soldato, lo prende con le sue mani robuste, lo chiama per nome “Emanueli!” e gli ordina bruscamente di sedersi e di mangiare la zuppa: Emanuele è impallidito e trema come una foglia perché è consapevole che sono due nemici e che lui è un intruso in una terra non sua.
“Non ho fame” dice il soldato italiano ma il russo, con un coltello in mano e tenendo con l’altra Emanuele per il collo, gli ordina “Kuscia !” “Mangia!” mentre Nadia guarda atterrita la scena, per lei imprevista perché ha parlato nei giorni precedenti col marito dell’italiano che sta aiutando: è un uomo buono, che ha trattato umanamente lei e la bambina.
Improvvisamente, il campione russo getta il coltello a terra, abbraccia Emanuele, ancora terrorizzato, ed entrambi iniziano a piangere a dirotto: ha vinto la consapevolezza, nel russo, che non sarebbe stato giusto uccidere il soldato, anche se straniero e nemico, che aveva trattato umanamente la sua famiglia.
“A ddraunara”, il gelo, la morte indotta da questo nemico implacabile: un giorno, Emanuele ed i suoi compagni ricevono l’ordine di perquisire una casa del paese alla ricerca di armi utilizzate dai partigiani russi. La ricerca ha un esito negativo ma, aprendo il cassetto di un comò, Emanuele trova un oggetto per lui molto più interessante di qualsiasi arma: uno scialle di lana, una promessa certa di un maggiore conforto nella lotta contro il gelo micidiale.
E’ un attimo e lo scialle scompare sotto il cappotto dell’italiano: la perquisizione termina e tutto sembra andare per il meglio. Invece, la donna si è accorta della scomparsa dello scialle e si reca presso il campo degli italiani per protestare con veemenza: il comandante raduna tutti soldati e ordina che, chiunque sia stato, restituisca lo scialle rubato.
Con la morte nel cuore e un senso devastante di vergogna, Emanuele fa scivolare giù dal cappotto, a terra, l’oggetto da lui tanto desiderato con la silenziosa complicità dei suoi commilitoni.
Alla fine del 1941, a causa di un congelamento della mano e del piede sinistro, Emanuele rientra in Italia e viene ricoverato presso l’ospedale di Imola: nel 1943 ha luogo la battaglia di Stalingrado in cui centinaia di migliaia di soldati, tedeschi e russi, perdono la vita ma è anche il fatto storico che segna l’inizio della controffensiva dell’Armata Rossa, che terminerà con la conquista di Berlino.
Durante la ritirata, falciati dal fuoco nemico, dalla fame, dalle malattie, dagli stenti, dal gelo, a migliaia morirono i soldati italiani dell’ARMIR: non è fuor di luogo pensare che il congelamento subito abbia salvato la vita di Emanuele.
Finita la guerra, a distanza di molti anni, Emanuele parla della sua esperienza in Russia, di Nadia, del marito, dello scialle ed ha uno sguardo intenso, determinato, profetico, quando sottolinea di non avere mai sparato ad un soldato russo lui, credente, cristiano: sulla lapide della sua tomba, sono stati incisi alcuni versi di una sua poesia:
“O Cristu Ridinturi;
Tu, chi tuttu pirduni, arranca arranca
– palummedda bianca –
Llarìa li vrazza e abbrazzati lu munnu”.