Nel giorno in cui venne introdotto il prefisso per le chiamate dal telefono di casa, che non trovate in rosso sul calendario, Gela si svegliò da un lungo torpore perché qualcuno, non so chi, fece il conto delle dipendenze che la città aveva accumulato nel tempo: il servizio telefonico (la Sip, che ancora in molti credo ricordano) aveva appena disegnato i distretti e scelto di affidare a Caltagirone il ruolo di capofila.
Il conto fu presto fatto: per rivolgersi alle autorità ecclesiali bisognava andare a Piazza Armerina, sede della Diocesi, per affrontare i rigori della legge a Caltanissetta, sede del Tribunale e della Corte di Appello; per difendersi dalla tasse, ottenere qualunque documento di qualche rilevanza, partecipare alle decisioni di vertice dei partiti, dei sindacati, delle imprese, delle istituzioni e delle associazioni; steso problema per seguire l’iter di qualunque opera pubblica o privata, richiedere certificati ecc. L’elenco non è esaustivo ma vi dà l’idea dello stato dell’arte. Tutto, proprio tutto, dipendeva dalla burocrazia e dalle autorità pubbliche e private del capoluogo.
Il torpore è durato più di venti anni a partire dall’ormai celebre fatidica visita del Duce. Posato sul suolo di Gela il suo stivale lustro di fresco, i gelesi fecero sapere nell’unico modo possibile, recitando una filastrocca, l’antica aspirazione. “Duce”, sillabarono con tono virile, stendardi e bandiere al vento, “niente vogliamo, Gela provincia e bacino montano…”. Il Duce ascoltò, perché non poteva non ascoltare, strinse le labbra come era solito fare davanti alle folle adoranti, e abbassò il capo, gesto che fu variamente interpretato: alcuni credettero che fosse una risposta positiva, altri mostrarono scetticismo commentando che si si trattava solo del modo consueto di corrispondere al saluto delle assemblee popolari urlanti, né più né meno.
Ebbero ragione questi ultimi, perché l’aspirazione gelese non riuscì nemmeno a guadagnare gli archivi polverosi che radunavano per data le richiesti populiste. Gela non aveva il Federale, di stanza nel capoluogo, ma la nobiltà ignorata dal fascismo, la casata dei Pignatelli d’Aragona Cortes, e a suo demerito vantava un cittadino del quale non ci si poteva fidare, Salvatore Aldisio, ex deputato del Partito Popolare e sodale di don Luigi Sturzo, nemico del regime. Andava semmai punita, altro che medaglia sul petto.
Facciamo un salto di un quarto di secolo, una giornata di sole tiepida e tranquilla. Gela si ridesta con un corteo, o come si dice oggi, inscena una vibrante protesta, con cartelloni che proclamavano l’Amaro Averna, prodotto a Caltanissetta, “nemico” del popolo. Era come dissotterrare l’ascia di guerra.
Il corteo si snodò pacifico per le vie della città seminando slogan e qualche insulto seguito con simpatia, ma invece di concludersi, come previsto, con il suo scioglimento, conservò il suo nucleo più corrivo, che aveva un insospettabile capopopolo, “picciotto” animoso di nome Arnaldo, popolarmente chiamato “Annardo”, fino ad allora celebre per le sue intemperanze allo stadio comunale, per i suoi neologismi insoliti ed ingiurie variopinte rivolte all’arbitro e ai giocatori con la maglia casalinga, colpevoli di modesto impegno agonistico, e perciò accusati di nutrirsi di verdura cotta.
Staccatosi dal corteo ufficiale, partecipato da benestanti, professionisti, il nocciolo duro raggiunse la vecchia stazione ferroviaria, seguito con con occhio vigile dagli agenti di polizia, e si insediò stabilmente sui binari. Il sit-in sarebbe durato un paio d’ore fra facezie, lazzi e frizzi, senza però farsi amare dalle forze dell’ordine. A quel tempo occupare strade e binari era reato penale e non si chiudeva un occhio, anzi. I treni ebbero lievi ritardi, e Arnaldo fu l’unico a pagare per tutti, per la sua festosa dimostrazione di attaccamento alla città. Nessuno l’aveva avvertito che le forze dell’ordine avevano appuntato il suo nome sul taccuino, né di stare trasgredendo la legge. Il sacrificio di Arnaldo, che finì in galera, non servì a far nascere la provincia di Gela, né il tribunale.
Era il tempo dell’industria, la sbornia di protesta fu presto dimenticata, la città aveva raddoppiato il numero dei suoi abitanti nel giro di un biennio. Completo abbandono da parte dello Stato e della Regione: figuratevi, per dirne una, che a far giustizia a Gela, divenuta la città più popolosa del capoluogo, c’era un pretore onorario. Si dovette aspettare la visita di Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica, ed una mafia che la battezzò “mafiaville”, a causa delle stragi fra gang rivali, perché Gela avesse un tribunale.
Ora facciamo un salto fino ai nostri giorni, agli anni duemila, quando il governo della Regione siciliana, rappresentato da un illustre cittadino di Gela, Rosario Crocetta, sindaco ed eurodeputato uscente, annuncia in pompa magna che avrebbe abolito le province e dato finalmente corpo a quella parte dello Statuto siciliano, integrata nella Costituzione italiana, che assegnava ai Consorzi di comuni, non più alla vecchia provincia, ormai desueta e vittima di politicanti, la cura di una serie di rilevanti funzioni. L’opposizione, allora rappresentata dall’attuale governatore, Musumeci, si mise di traverso.
Meglio conservare le province e far votare il popolo come in passato, ma il presidente della Regione, Saro Crocetta, sicuro di sé, ospite dell’ultra celebre pomeriggio di Rai1, l’Arena, condotto da Giletti, senza lasciarsi intimorire, dichiarò con enfasi che per le province era ormai la fine. Morte e sepolte. La Sicilia, ancora una volta, avrebbe guidato il resto della nazione nella cacciata delle mute di clientes aggrappate alla greppia delle prebende provinciali. Un’altra era, dunque, nella quale, supposero a Gela, il vecchio sogno avrebbe potuto avverarsi finalmente.
Sappiamo com’è finita. Sia Crocetta quanto Musumeci, smantellate le provincie, piuttosto che i Consorzi di comuni, crearono i “commissariati”: uno per ogni provincia. Nominati per gestire la transizione, sono ancora in sella, offrendo preziosi strumenti di vigilanza, controllo e distribuzione di risorse, naturalmente ai più meritevoli, ma scarse o insufficienti tanto da mandare in bancarotta le amministrazioni.
Nonostante la cattiva volontà dell’Assemblea regionale siciliana, contraria al progetto di ridisegnare i distretti amministrativi, si aprì un varco, grazie ad una legge macchinosa, ambigua, che aveva la missione di accontentare i localismi senza cambiare di una virgola le cose. Una legge, una delle tante, nate morte, prodotta da compromessi incrociati, diffidenze e, in definitiva, di un sostanziale “rifiuto” di cambiare le cose.
Eppure nella pancia di questa legge, sostanzialmente “impraticabile”, un gruppo di ricercatori volenterosi avrebbe trovato un varco. Sarebbe stato come scalare l’iceberg: ad astra per aspera, insomma. Gela si sarebbe trasferita dal Consorzio di comuni nisseno a quello di Catania, “contiguo”. Un primo passo verso un “consorzio” con capoluogo Gela. Ed è proprio in questa occasione che si consuma la Grande Truffa ai danni dei gelesi, che hanno partecipato in 24 mila ad una consultazione popolare. Ma di questo vi riferirò successivamente.
Prima di concludere, comunque, voglio fare coming out, come la penso su questa storia. Non stravedo per Gela provincia. Il bacino montano chiesto al Duce c’è già, e il tribunale pure, quindi “no contest”.
Ho avuto anch’io i miei giorni di passione sulla questione al tempo di Aldo Clementino sindaco, intelligente e galantuomo, del quale fui il “vice”. Riuscimmo a mettere insieme gli amministratori del comprensorio facendo preoccupare un po' di gente, disseppellendo il Consorzio di comuni tumulato insieme con lo Statuto speciale. Pensieri, progetti, confronti, chiacchiere e nulla di più. Fummo assediati da gelosie, malumori e cose del tipo: “ma che vogliono, unna vonu arrivari?”. Giudico quella iniziativa una delittuosa perdita di tempo rubata allo studio e alle cose serie. Avessimo puntato sulla green economy, invece che su Gela provincia, avremmo guadagnato qualche merito, ma occorreva saperne di più sull’argomento. Non basta osservare con orrore i tronchi d’albero imbiancati dai fumi della fabbrica, segni eloquenti dell’aria putrida che si respira, per avere cognizione del futuro.
Ho considerato la causa di Gela provincia, persa in partenza. Non ci sono mai state armi e munizioni sufficienti per combattere il centralismo provinciale e regionale, le burocrazie politiche, i privilegi di risulta, prodotte dall’ascarismo localista, che è come tollerare il nemico in casa. Un cartello imbattibile.
A mettere il piede sul freno, memore dell’esperienza fatta e dal teatrino recitato o da mattacchioni e furbastri, ha contribuito l’amor proprio. Non ho mai voluto favorire la sistematica strumentalizzazione della vecchia aspirazione popolare, gestita con encomiabile sapienza dagli onorevoli poco onorevoli e compagnia bella.
Che vi debbo dire, forse si è sbagliato pure l’Ecclesiaste: c’è un tempo per tutte le cose, ma non per Gela provincia. Non è la fine del mondo, però fa rabbia passare per imbecilli.