Tu, conchiglia bianca tu / che da quell'onda sei venuta giù. / Tu che chiudi nel tuo guscio i tuoi pensieri / e non ti accorgi mai un po' di me. / Piccolo intreccio di corallo / prima o poi ti prenderò / nella mia rete di cristallo.
(I Cugini di Campagna, Conchiglia bianca, 1974)
Il mio amico Rocco Cerro da anni ha eletto lo stabilimento balneare della Conchiglia come l’icona di una città in declino. Non riesce a farsene una ragione. Era diventata la sua insanabile malattia a causa del suo aspetto ripugnante. Lontano dalla mia città ormai da decenni ho prestato alle sue recriminazioni, senza tregua, una attenzione modesta. Ci sono tante cose che non vanno a Gela, mi sono detto, perché quel chiodo fisso. Tornato a Gela in vacanza, il mio amico ha affidato le parole alla immagine di quel che resta dello stabilimento balneare, costringendomi per così dire a prendere coscienza della realtà, a resuscitare ricordi giovanili che credevo sopiti, agli amori sognati, ai tuffi e sberleffi delle mattinate balneari. Gli occhi risvegliano la memoria dormiente. Solo la musica sa fare di meglio, consegnandoti al ricordo di un abbraccio in un tempo senza tempo.
E’ così che la Conchiglia è tornata a indossare l’abito della festa, accompagnata, ahimè, dal rimpianto e dal rammarico. Il passato è sempre pieno di fascino. Una volta che entri dalla porta principale, irretisce e scopri un pezzo della tua vita che sembrava irrimediabilmente perduta. La Conchiglia non nasce dal nulla, è l’erede del Lido Gela, lo stabilimento balneare in legno che conobbe giornate di gloria, quando il Duce venne a Gela in divisa bianca estiva concedendosi ad uno storico ballo con una aristocratica dama gelese che ebbe l’ardire di invitarlo alle danze. “se non ci credi tu nel salvataggio di questo rudere non ci può credere nessuno”, disse il mio amico, implacabile.
Mentre parlava mi innamoravo del rudere, lo rivedevo nel pieno della sua gloria terrena, affollato di donne eleganti e di uomini soggiogati dalle loro grazie, di musici e star della canzone italiana. Non era la Versilia, mi dicevo, ma se il Duce… In ogni tempo Gela ha avuto la sua cattedrale. Una cattedrale religiosa o laica, sin dalla fondazione quando i greci ne fecero una città della preghiera e degli dei pagani. Le mura timoleontee sono state la cattedrale del Potere militare, il fiume (immanisque Gela, nome fluminis dicta, Virgilio) la cattedrale di una natura fertile, la collina ingobbita la cattedrale dei rodio-cretesi che vennero ad abitarla, le mura fredericiane la cattedrale del tempo di mezzo dopo un limbo di quasi mille anni.
Bisognerà aspettare più di duemila anni, a partire dalla fondazione greca, perché Gela torni ad avere la cattedrale “dell’industria e del progresso”. Stavolta di ferro, acciaio e carbone. La fabbrica, però, a differenza delle altre cattedrali, sarebbe nata e cresciuta “nel deserto”. Attorno ad essa niente, nonostante le previsioni dei cantori del nuovo mondo prospero e felice. E’ una cattedrale che non ha bisogno di niente e di nessuno. gelosa della propria potenza. Ha dato lo sfratto alla cattedrale del mare, La Conchiglia. Ha vinto facile. Solo nei racconti biblici Golia soccombe a Davide.
La Conchiglia avrebbe almeno meritato il rimpianto. Abbandonata a sé, privata del suo mare generoso, divenuto un grande lago inquinato, spogliata della sua vitalità, economicamente insostenibile, è stata corrosa dal tempo e dall’incuria. Ed è scomparsa persino dalla memoria dei gelesi.
Coloro che ne incrociano i resti giorno dopo giorno, e talvolta anche di più, la vedono tante di quelle volte che non ne percepiscono più la presenza, come capita per le cose che abbiamo sotto gli occhi, si tratti di oggetti o di persone. Eppure il tempo gli sta restituendo il rimpianto, perché l’abbandono ne ha fatto un insolito reperto archeologico, senza essere tale. Fra l’archeologia e il vintage corrono più di duemila anni. Nel caso nostro la storia è capovolta. Le mura timoleontee sono il presente, La Conchiglia, invece, dal vintage è stata trasferita in un tempo senza ricordi in un precipizio di incuria e indifferenza. Per il forestiero è un rudere inconcepibile sul Lungomare. Ne auspica la cancellazione fisica. E per i gelesi? La sua sopravvivenza non ha padrini. Né politici e né uomini di cultura ne perorano la causa, affidata alla burocrazia “provinciale” – per collocazione fisica e dimensione culturale – che ne ha deciso la demolizione.
Tacciono, smarriti come sempre, quei pochi che vorrebbero ma non possono; tacciono gli amministratori, affaticati dalle cure del presente gravoso, tacciono gli “on” alle prese con le corporazioni urlanti, tacciono “i vicini di casa” occupati e felici dei loro affari sul Lungomare ritrovato, tacciono i giovani senza ricordi che inseguono la loro movida, tacciono, o fanno sentire una flebile voce, i cultori di storia patria aggrappati come polipi all’età dell’oro, greca e fredericiana. Tace una città senza anima, che assiste alla spoliazione, senza sentirsi nemmeno in colpa. Una vergogna infinita.