Sono centinaia i civil servant distribuiti in Italia con il titolo di commissari.
Per infiltrazioni mafiose, emergenze, pandemia o casi giudiziari. C’è stato un tempo in cui i commissari si trovavano soltanto nelle questure e nei commissariati di Pubblica Sicurezza, e veniva loro riconosciuta un’autorità indiscussa. Niente a che vedere con i nostri giorni. Oggi il Commissario di P.S. è stato degradato sul campo, non certo per demeriti ma per la rilevanza dei poteri assegnati alla magistratura inquirente. Una derubricazione ope legis, che invece non ha scalfito i Marescialli dei Carabinieri che nel territorio mantengono il carisma di sempre, o quasi, compensando quanto è stato tolto dalle norme di procedura penale.
E’ proprio riflettendo sulla folla di commissari “civili” nominati dal governo, nazionale o regionale, che si sono risvegliati alcuni ricordi, sopiti, della mia adolescenza. La memoria conserva, indelebile, il ricordo del Commissario di P.S., autorevole e severo. E questo ricordo ha un cognome, Savoia, ma non un nome, ahimè dimenticato, grazie soprattutto a un episodio del quale sono stato testimone. Siamo all’inizio degli anni cinquanta – non riesco ad essere più preciso – e si viveva a Gela come altrove la coda, velenosa, del ventennio fascista e del turbinoso periodo postbellico, assai inquietante in Sicilia, terra contesa da democristiani e socialcomunisti, morti di fame e post-baronia delle campagne, mafia e antimafia, banditi e carabinieri.
Le manifestazioni di protesta del popolo “rosso” erano spesso terreno di scontro fisico fra poliziotti e dimostranti. Mantenere l’ordine pubblico nelle città era perciò un affare serio. A Gela i contadini ed i braccianti volevano le terre, in larga parte incolte, che appartenevano a pochi riccastri. In testa a tutti c’erano i La Mattina, una famiglia cui il popolo rosso addebitava il possesso della maggiore fetta di terra. Perciò all’interno di Bandiera Rossa, l’inno di battaglia della rivoluzione russa, avevano aggiunte alcune rime assai eloquenti. “Nill’amma spartiri li tirreni di La Mattina…”
Cantavano a squarciagola ogni volta che ne avevano occasione, in specie alla fine di comizi oceanici in Piazza Umberto, luogo quotidiano di raduno e di conversazione del proletariato urbano.
Il Commissario Savoia presidiava ogni angolo della città senza poliziotti, perché s’era fatta la fama di funzionario vigilante. I comizi si svolgevano senza turbolenze. I risentimenti del popolo rosso venivano riservati agli eredi “ideali” della patria fascista ormai andata in soffitta, i missini. Nei comizi del Msi il presidio virtuale di Savoia diventava fisico: poliziotti pronti ad intervenire ai lati della folla e lui in prima fila, ad ascoltare ogni parola del comiziante, pronto a sanzionare contenuti che avrebbero potuto provocare proteste degli antifascisti. L’apologia del fascismo, peraltro ancora vigente, non era una categoria della libertà di pensiero, di fatto, ma un reato da punire.
Durante un comizio del Movimento Sociale Italiano, l’oratore, un pezzo grosso della destra, si lasciò trascinare dalle pagine “fulgide” del tempo andato, espulse dall’Italia postbellica. Il Commissario Savoia, impettito e lo sguardo vigile – la fascia tricolore, com’era in uso a quel tempo – non si era perso una virgola, e non indugiò un istante. A suo avviso l’oratore aveva saltato il filo spinato della legge. “Lei sta facendo apologia del fascismo”, urlò. “La invito a cambiare registro”. Non so se siano state pronunciate queste parole esatte, ma il senso era questo: cambia discorso, altrimenti ti denuncio e sciolgo il comizio. In Piazza Umberto, sotto il balcone del Bar Impero, la folla fece silenzio. Non si sentì volare una mosca. Non ho memoria della reazione dell’oratore, ricordo che nessuno fra la folla degli spettatori ebbe nulla da obiettare, segno che l’interruzione stava dentro la legge e le consuetudini forti di Savoia.
Tutto filò liscio, gli applausi alla fine del comizio furono deboli e brevi. I poliziotti attesero che la folla si diradasse e Piazza Umberto tornasse in mano ai contadini rossi che la occupavano per molte ore ogni giorno dell’anno.
Non fui mai testimone dei “caroselli” con le jeep utilizzati per disperdere assembramenti non autorizzati nelle piazze calde del Paese. Ma non bisogna pensare che la città dei poveracci, la Gela popolare di quel tempo, accettasse a braccia conserte il futuro avverso. Nel ’48 Gela fu teatro di scontri furibondi fra sinistra e sindacato rosso da un lato e “celerini” dall’altro. Dall’alto del balcone di casa mia, in Via Cairoli, assistetti, ancora con i calzoni corti, a episodi di guerriglia, contadini e braccianti da una parte e le forze dell’ordine dall’altra, i primi armati di pietre e di ogni altro rudimentali mezzo contundente, gli altri con manganelli.
A cavallo fra anni quaranta e cinquanta, Gela viveva una sorta di campanilismo politico per via della presenza, molto ingombrante, di due personaggi che contavano nel grande partito di governo, la Dc: Mario Scelba e Salvatore Aldisio. Scelba era il padrino politico di Caltagirone, la patria di don Luigi Sturzo, e Aldisio di Gela, erede di una famiglia – Sammito-Aldisio – di proprietari terrieri, illuminata e protagonista dei Fasci dei Lavoratori (fine Novecento), e del Partito Popolare (negli anni Venti).
Il titolare del ministero dell’Interno era Mario Scelba e Salvatore Aldisio, ministro dei Lavori Pubblici. La Democrazia Cristiana di Aldisio e Scelba regnava, ma avendo una spina al fianco, il Partito Comunista e il Psi, soprattutto il primo. Scelba era inviso al popolo rosso per via dei celerini e dei “caroselli” della polizia, a quel tempo assai sbrigativa nel sedare disordini e ribellismi. Questo contesto spiega forse l’autorità del Commissario Savoia e la sua risolutezza. L’episodio cui ho assistito sembra suggerire che la polizia di Scelba non era un esercito in armi contro i socialcomunisti, celerini e caroselli, ma una forza di dissuasione attenta sia a destra che a sinistra.
Salvatore Aldisio, è vero, non avrebbe tollerato che a casa sua si facesse apologia del fascismo, e di questo il Commissario Savoia era probabilmente ben consapevole, ma sono sicuro che avrebbe agito allo stesso modo anche altrove o in altre circostanze.
Ebbi modo di conoscere, più avanti negli anni, Savoia, e la mia opinione che fosse un funzionario ligio al dovere e diligente trovò conferma. Ma i meriti di Savoia accrebbero quando ebbi, come docente di storia dell’arte, al Liceo, la moglie, una gran bella donna. Per noi ragazzi era una divinità dell’Olimpo, e non ci si innamora delle divinità. Ci lasciava senza fiato. Più che la fascia tricolore e la risolutezza nei comizi, fu la giovane sposa a farmi pensare che il Commissario possedesse insospettate risorse. La prof volava da una classe all’altra con leggerezza, lasciandosi dietro il profumo di donna d’altro pianeta. Quando saliva in cattedra, i capolavori dei maestri del Rinascimento non riuscivano a raggiungerci, alla fine della lezione ad uscirne bene era il Commissario Savoia. Un’autorità in piazza e anche tra i banchi del Liceo. A sua insaputa.