Per una esatta comprensione di quello che dirò a proposito del “mio 1968”, ritengo indispensabile fare una premessa.
Mi sono laureato in Lettere Classiche nel 1965, presso l’Università di Palermo, al termine di un corso di studi che aveva determinato in me, fin dalle scuole elementari, una grande ansia di giustizia. Per citare qualche momento di quell’esperienza, ricorderò di avere trascorso i tre anni della scuola media a Ragusa, sempre di pomeriggio, in un’aula buia, illuminata da una lampadina esangue, con le finestre che davano su di un fossato oscuro, nel quale i bidelli, dal piano superiore, buttavano l’immondizia.
In quarta e quinta ginnasio, a Ragusa, ho avuto come compagne di classe, tra le altre, una che era figlia del direttore della Banca d’Italia e l’altra che era figlia del direttore del Banco di Sicilia: sebbene entrambe inconsistenti culturalmente e dal punto di vista umano, era uno spettacolo vedere come tutti, professori e preside, fossero servili nei loro confronti.
Per farla breve, all’università, ho sostenuto un esame in queste condizioni: entravamo nello studio del professore due per volta. Io sono entrato con una collega molto bella, che “sapeva il fatto suo”.
Il professore ha iniziato da lei, senza mai farle una domanda sulla materia, scherzando, facendole dei complimenti, offrendole una sigaretta, divorandola con gli occhi e concludendo il tutto con un trenta. Venuto il mio turno, ha iniziato con una serie di domande sugli argomenti più diversi della materia, mantenendo questo atteggiamento per tutta la durata del colloquio e terminando con un trenta: evidentemente, gli difettava il senso del pudore, avendo potuto ritenere di ignorare il particolare che io avevo assistito allo svolgimento dell’esame precedente, condotto con grande disinvoltura.
I “baroni”! Senza pudore i padri, senza pudore i figli: il professore Canfora, docente esperto di Cultura greca e latina presso l’università di Bari, ha un figlio che ha vinto il concorso di ricercatore presso la stessa università del padre e nella stessa facoltà: a chi gli ha fatto notare la “singolarità” della cosa, il Canfora junior ha risposto: «E’ colpa mia se sono nato in una casa piena di libri ?».
Il “ filo rosso” che univa i diversi anni del mio corso di studi aveva determinato in me la convinzione che, studiare, non era una scelta adatta per chi appartenesse ad una famiglia di modeste condizioni economiche: non a caso, per lo stesso motivo, dovetti rinunciare alla proposta fattami dal professore di Letteratura greca di rimanere in facoltà come assistente (non retribuito) e di rimanere come assistente di Archeologia, alle stesse condizioni.
A questo punto, è facile immaginare quale sia stata la mia reazione all’avvento del 1968: per me, è stato come un tentativo da tempo agognato di liberazione da una rete di interessi, di complicità, di favori, di violenze mascherate o aperte, che soffocavano ogni possibilità di rinnovamento del nostro Paese. Mi si potrebbe obiettare: Ma le violenze? Gli eccessi? Il sovvertimento dei valori, del principio di autorità? La mia è stata una reazione istintiva, esistenziale, dal momento che era diventato insopportabile il peso della consapevolezza delle angherie subite, più o meno velate.
Su questo sfondo, importante, ho vissuto sulla mia pelle il “mio ‘68”. In quell’anno, mentre insegnavo al Magistrale “Dante Alighieri” di Gela, sono stato invitato dagli studenti a partecipare ad un dibattito su “Lettera a una professoressa”, il testo scritto dai ragazzi della scuola di Barbiana, guidati da don Lorenzo Milani. A parte la durezza del dibattito, tra il pubblico c’era il preside Nicolò Di Fede, quella esperienza ha determinato in me una profonda revisione, anche un inveramento, dei valori ai quali mi ero richiamato negli anni precedenti sia come studente che come professore.
Certe frasi, di cui cito qualcuna a memoria e a titolo d’esempio, hanno inciso profondamente sulla mia sensibilità: ”La scuola italiana è come un ospedale che allontana i malati e cura i sani”; oppure: “La scuola è sul crinale tra conservazione e rivoluzione”; ancora: “La scuola deve insegnare a uscire tutti insieme dai problemi”; infine, la frase pronunciata da un ragazzino di Barbiana che si alzava la mattina alle 5,00 per governare le vacche e poi andava a scuola perché “La scuola sarà sempre meglio della merda”.
La lettura di quell’opera, la sua durezza, la sua indignazione, la sua protesta, la sua volontà di lotta per una società più giusta, la sua ribellione alla predestinazione per cui i poveri sarebbero sempre stati emarginati, mi ha profondamente ferito, come se fino ad allora non avessi fatto abbastanza per difendere le mie idee, oppure, che non lo avessi fatto con la necessaria convinzione.
Una conseguenza immediata di quell’esperienza fu che accantonai il progetto di ritornare ad insegnare nei licei classici, come sarebbe stato naturale per il mio tipo di laurea, e decisi di scegliere come sede di titolarità un istituto tecnico; inoltre, maturai la consapevolezza, come ho scritto precedentemente, che il rendimento scolastico dei giovani non scaturisce direttamente da una loro responsabilità, ma che possono interferire su di esso molteplici fattori che un insegnante deve saper conoscere.
Il “mio 68”, quindi, è diventato un metodo di insegnamento e di vita che mi ha accompagnato anche negli anni successivi, sempre, perché non è mai venuta meno, anzi, si è acuita la consapevolezza che viviamo in un mondo ingiusto, non ineluttabile ma voluto da uomini, mondo contro il quale bisogna sempre lottare.