Da diversi giorni si dibatte sulla questione del porticciolo, in un ping-pong continuo tra amministrazione, pseudo avversari locali e regionali, con in mezzo associazioni e comitati interessati alla problematica, volenti o nolenti stritolati nella morsa. Nessun candidato alle imminenti elezioni, ha ritenuto utile e/o doveroso intervenire sull'argomento.
Una diserzione a tutti gli effetti. Una latitanza non estemporanea o di necessità, ma al contrario pensata e studiata, come se manco fossimo in campagna elettorale.
Sicché il tema della portualità, così come quelli della riconversione industriale e delle tanto agognate compensazioni Eni, unitamente ai temi irrisolti dell'agrofotovoltaico e dell'innovazione agricola, della discutibilissima crisi idrica tra uso potabile ma non bevibile di un'acqua che si conferma salatissima nelle bollette, quello della promozione del turismo e dei beni naturalisco-culturali che questo limbo di terra e la sua storia ci donano, chiedendo in cambio solo amore, potevano e sarebbero stati i temi su cui confrontarsi nelle campagne elettorali passate. In questa, invece, niente di tutto ciò.
Nemmeno lontanamente. Nessun confronto attraverso i mezzi di informazione tra i candidati, nessun comizio e solamente quando mancano 10 giorni al voto, annotiamo nel taccuino il primo spot con tanto di volantino da parte di un candidato locale. Nessuno si prende la briga ed il coraggio di impegnarsi su questi temi con gli elettori. Un sottrarsi collettivo. Eppure ci sono ben nove candidati gelesi. L'unica esortazione che va per la maggiore è del tutto virtuale: ossia l'invito al "like" o al "tweet" sulla pagina “social” dedicata.
Dalle campagne elettorali al fulmicotone dei decenni passati, in cui i candidati non se le mandavano certo a dire dai palchi e nelle piazze, dove le folle misuravano ed alimentavano i pronostici sui consensi che sarebbe stati poi espressi dalle urne, si è passati a campagne elettorali sempre più anonime, al coloroformio, con pochi "santini" pronti all'uso nelle halls e nelle salette private di hotels, ristoranti, uffici professionali e quant'altro, dove i candidati ricevono i "grandi elettori" con tanto di pacchetti di voti in dote. A ruota seguono, poi, hashtag e formulette rituali nel web.
Assistiamo di fatto a campagne elettorali in cui pur non essendo possibile nascondere i candidati, impegnati esclusivamente a serrare le fila di parentati e clientele, si tiene a debita distanza il grosso dei cittadini elettori, quasi a suggerirgli di restarsene a casa nella domenica dell'election day, lasciando che siano altri (i rispettivi “followers”) a decidere per loro.
E questa legge elettorale con liste (benché corte) bloccate di certo non aiuta. Ai capilista che sono praticamente già eletti non conviene affrontare la piazza perché nulla ci guadagnano nel farlo, rispetto ad un esito elettorale a loro favorevole che hanno praticamente già in tasca. Semmai, avrebbero solo da perderci. Negli stessi collegi uninominali, l'indole maggioritaria è inquinata da quella proporzionale dei collegi plurinominali collegati, senza possibilità di voto disgiunto, con un candidato favorito sugli altri nella maggior parte dei casi e, stando ai sondaggi molto seguiti dai partiti, con solo un'ottantina di collegi indecisi tra due o al massimo tre aspiranti onorevoli.
Va da sé che affrontarsi a viso aperto in questo clima autoreferenziale non conviene. Converrebbe all'elettore, se è per questo, ma costringerlo ad un ruolo di spettatore del tutto passivo, in quello che sostanzialmente si riduce all'unico momento vero di coinvolgimento democratico dello stesso, è un trend consolidato che abbiamo già visto ed appurato alle elezioni regionali di pochi mesi fa, così come alle europee di qualche anno or sono. Solo alle ultime amministrative il clima si è leggermente surriscaldato.
E quanto accade a livello locale, nelle periferie, è figlio della stessa logica che domina il campo a livello nazionale. I programmi dei partiti non vengono più diffusi, né tantomeno spiegati, punto per punto. Imperversano gli attacchi sterili alle persone, desolatamente degradanti, con insulti ed offese gratuite, che vanno dal “ladro” al “razzista”, dal “truffatore” all'omofobo”, dal “nazi-fascista” al “terrorista”, con le cronache che fanno da spunto. I grandi temi vengono solo sfiorati, giacché semplicemente liquidati con slogan ad effetto.
Tra i leaders non c'è confronto, forse perché nell'intimo sanno che non vincerà davvero nessuno o che, al contrario, vinceranno tutti: basterà semplicemente mettere le proprie pedine – chi più, chi meno – nell'ampia scacchiera parlamentare, mentre l'Italia continua a fare a pugni con il futuro, ingabbiata nel presente da un sistema politico ancorato al passato ed arrivato ad un punto di non ritorno, attorno al quale si contorce, facile preda di un dilagante qualunquismo dei e nei contenuti, figlio del più becero populismo, trionfante nell'aver contagiato tutti, nessuno escluso, mentre una democrazia che isola e mette spalle al muro il cittadino elettore, altro non è altro una democrazia che va a rotoli.