Il leghista Borghi chiede le dimissioni di Mattarella che ha osato evocare il rispetto della sovranità europea alla vigilia del voto.
Matteo Salvini s’inchina a Putin che conquista il consenso popolare con i mitra dentro i seggi, il cadavere del suo maggior nemico, Aleksei Navalny, ancora caldo, e inneggia Trump, perseguitato dai giudici colpevolisti, su cui incombe l’ombra dell’assalto al Congresso.
Giorgia Meloni riscrive Stevenson, lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde: timida e moderata in Europa, governante di tutti gli italiani a Palazzo Chigi, piazzista e comiziante borgatara nella sua Roma, democratica e nostalgica; il linguaggio dello statista a Bruxelles, e quello caciarolo a Piazza del Popolo. Il consiglio dei Ministri in servizio permanente effettivo, sforna raffiche di decreti che all’indomani del voto europeo ci regaleranno un’altra Italia, mentre il ministro dell’Economia Giorgetti, travolto da debiti e indebite pressioni si chiede, come Iannaccone di Rai3, “che ci faccio io qui?”.
Il discorso politico ed istituzionale ha raggiunto vette di sfrontatezza ignote. Salvini e Meloni, ognuno con le proprie specificità e caratteri, usano l’insoddisfazione che ci abita dentro, la dolorosa sensazione del fallimento. Occupati a flagellarsi, perquisirsi e interrogarsi, talvolta in modo maniacale, in una solitudine senza sbocco, in tanti fuggono dalla realtà intollerabile, concorrendo al naufragio in modo volontario, tradendo il sacerdozio laico della democrazia, il voto libero, per il quale sono morti milioni di italiani. Scrivono un diario vuoto che trasforma l’insurrezione personale in un abbandono di sé, in un guardarsi indietro che fa perdere il conto dei giorni, in un precipizio kafkiano che trasforma la vittima in imputato.
La realtà vuole imporci uno stile che idolatra le forme vuote, fa della democrazia un teatro di cartone, il discorso politico una commedia dell’arte esangue, e i valori, principi, progetti di vita, delle fishes da scommettere in un virtuale tavolo verde, gestito da croupier senza scrupoli.
Non desti scandalo perciò se affermo che ciò che serve è riappropriarsi dello stile. Lo stile è un’arte sovversiva, essenza e non apparenza. Niente a che vedere con il populismo ammiccante, che si compiace per compiacere, con il farsi “popolo” senza esserlo, con l’agghindarsi di eleganza formale. Gli attori di Palazzo Chigi hanno messo in scena la decadenza, il declino, il cattivo gusto. Lo stile appartiene all’autenticità.
Guadagnare lo stile è rispettare il popolo che si governa, con verità parole oneste, battersi, magari per l’impossibile; per i cittadini elettori è rimettere in gioco le idee, i pensieri, le volontà. Tornare a vivere, a credere, sognare, sbagliare, confrontarsi. Creare un contesto di rispetto e verità. Lo stile è un fuoco interiore, altro che questione di buon gusto, di apparenza. Dio patria e famiglia, sigilli di ipocrisia, maschere, icone.
Una società che guadagna lo stile è meno incline a cadere preda di slogan vuoti e promesse irrealizzabili, pretende la trasparenza nelle istituzioni e la responsabilità dei rappresentanti politici, pretende che la politica sia un processo inclusivo, dove la partecipazione attiva dei cittadini è incoraggiata e facilitata, che la politica non sia dominata da figure che brillano per carisma più che per competenza, e sia caratterizzata da onestà e chiarezza, piuttosto che da manipolazione e sensazionalismo, sia impegnata a parlare con sincerità, anche quando questo significa affrontare argomenti scomodi o impopolari e l’analisi razionale dei problemi e soluzioni basate su evidenze concrete. Il populismo, con la sua tendenza a sfruttare le paure e le insicurezze dei cittadini per guadagni elettorali, rappresenta una insidia grave.
Una visione cupa, sconsolata, troppo severa? La mia disistima politica trasuda avversione incontenibile? Non lo escludo. Anche l’odio contro la bassezza stravolge il viso, ricorda Bertold Brecht. Siate indulgenti verso chi, reclama Brecht, ha “roca la voce” a causa dell’ira provocata dall’ingiustizia. “Noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non si poté essere gentili.”
Invoco lo stile, perciò, insensatamente sottovalutato, contaminato, manipolato. Sostiene Charles Bukowski (Storie di ordinaria follia) che lo stile è una differenza, un modo di fare, un modo di esser fatto. Una risposta a tutto. E ricorda che quando Hemingway si è fatto saltare le cervella con un fucile, quello era stile; che Giovanna d’Arco aveva stile, Giovanni il Battista, Gesù, Socrate, Cesare, García Lorca.
E’ uno sbaglio pensare che lo stile sia buon gusto, classe, distinzione, eleganza, signorilità, o modo individuale e riconoscibile di esprimersi di un autore, di un artista, o sia contegno formale purché utile ad ottenere ammirazione lode apprezzamento. Uno sbaglio dalle tragiche conseguenze. Charles Bukowski ci inchioda, svelando la ipocrisia con la brutalità di un colpo di fucile.
Ernest Hemingway, che incarna la figura del macho scrittore, l’avventuriero che vive le sue storie prima di scriverle, quando si è fatto saltare le cervella con un fucile, ebbe stile. Risuona come una sberla in faccia a chi confonde lo stile con il buon gusto. Lo stile di Hemingway non è compostezza, bonarietà che i salotti letterari tanto amano, è una dichiarazione estrema, un rifiuto della mediocrità, un grido di sfida contro l’assurdità dell’esistenza.
Giovanna d’Arco aveva stile quando, guidata da visioni divine, sfidava gli eserciti inglesi e accettava la sua tragica fine sul rogo. Giovanni il Battista, con il suo ascetismo radicale, era uno stile vivente. Gesù, che con la sua vita e morte ha segnato la storia dell’umanità, era l’incarnazione stessa dello stile. E Socrate, con il suo martirio filosofico; e Cesare, con il suo carisma imperiale, o Federico García Lorca, con la sua poesia rivoluzionaria e la sua tragica fine.
Non troveremo nelle liste dei candidati nelle schede elettorali qualcuno che ci ricordi i personaggi evocati da Charles Bukowski, potremo ispirarci a loro nella ricerca di quelle qualità, di quella determinazione, di quello spirito di verità e di audacia, che ci servono. Non è molto, ma quanto basta per fare la nostra parte. Con stile.
(Sal.pa.)