Negli Anni Cinquanta e Sessanta, ma anche successivamente, fino a che esistevano i vecchi partiti e la Prima Repubblica, abbandonare il gruppo consiliare nel quale si era eletti mobilitava le coscienze e suscitava indignazione.
E quando la coscienza e l’indignazione apparivano silenti c’era il partito, il Pci soprattutto, a mobilitare l’opinione pubblica. Il voltagabbana veniva sottoposto ad una gogna pubblica, non meno efficace della gogna mediatica, forse solo meno inclusiva.
La deterrenza sanzionatoria, tuttavia, pur dura e implacabile, non servì mai a evitare che si ripetessero le migrazioni, che regalavano alla Dc la maggioranza assoluta in consiglio comunale che gli elettori non le concedevano. Pur essendo il partito più votato, la Dc non riuscì mai a conquistare quei ventuno seggi necessari per eleggere il sindaco (non c’era l’elezione diretta del primo cittadino). Ogni volta, era la stessa storia. Ciò che la Dc non otteneva dall’elettorato, se lo prendeva attraverso le migrazioni verso il suo gruppo consiliare. Ne bastava una, talvolta.
Il caso più clamoroso si verificò con il candidato al senato Giuseppe Alessi, relegato nel collegio storicamente perdente Gela-Piazza Armerina dai suoi avversari di corrente. Alessi battezzò il segretario della sezione comunista e consigliere comunale (padre di sette o undici figli?) in Chiesa alla Matrice, a conclusione di una trionfale campagna elettorale. Conversione religiosa e politica in un colpo solo. Dio non c’entrava niente, ma i suoi servitori – sacerdoti e parroci – c’entravano e come!
Chi l’avrebbe mai immaginato che Gela, ideologizzata, pervasa da passioni insanabili, fedele a bandiere, uomini e parole d’ordine, sarebbe oggi diventata la città del pensiero debole, scettica, disamorata e infedele, pronta a abbandonare partiti, movimenti, schieramenti? La storia della consiliatura gelese, che ha appena concluso il suo mandato, è la riprova del nuovo ciclo, una matassa inestricabile. Sfidiamo chiunque a raccapezzarsi.
Le appartenenze, mascherate fin dall’inizio, si sono sfumate fino a perdere ogni riconoscibilità. Impossibile individuare una maggioranza o una opposizione, ruoli fondamentali di ogni democrazia e di ogni assemblea rappresentativa.
E’ una impresa ardua censire i casi di abbandono o migrazione dei consiglieri comunali, perché non c’è una identità politica cui riferirsi fin dalla presentazione delle liste elettorali. Lo stesso sindaco, Lucio Greco, che guidava una cordata civica, alla prima occasione elettorale (le politiche nazionali e regionali), si è schierato con Forza Italia, suscitando comprensibili reazioni in chi al civismo aveva creduto di avere aderito.
I cambiacasacca a Gela non hanno avuto cittadinanza, perché i consiglieri comunali non hanno indossato alcuna casacca. Una peculiarità che ha segnato anche la campagna elettorale in corso. Il centrodestra c’è, ma è sparpagliato in più formazioni; il centrosinistra c’è, ma è anch’esso diviso. Ci sono più candidati di centrodestra e più candidati di centrosinistra. Il Pd e il M5S hanno un candidato comune, proposto dai Cinquestelle, ma c’è un dirigente ed ex deputato regionale del Pd, Miguel Donegani, in lizza con il suo movimento.
In questo contesto molto confuso nasce, curiosamente una iniziativa parlamentare di due deputate del M5S all’Assemblea Regionale Siciliana, Cristina Ciminnisi e Martina Ardizzone, che hanno presentato un disegno di legge r4egionale che prevede sanzioni per quei parlamentari che cambiano gruppo nel corso della legislatura.
Gela non c’entra niente, non perché sia immune dal fenomeno del pentitismo politico, ma per la ragione opposta: nessuno può lasciare un partito se il partito non l’ha. Non c’entra invero nemmeno l’Assemblea regionale, perché la questione è di carattere costituzionale. Ad impedire che l’iniziativa abbia successo c’è un muro alto e invalicabile, l’articolo 67 della Costituzione che recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato“.
E allora, che cosa induce le deputate a farsi promotrici di questa svolta impossibile? Non certo, il risultato, che non può essere raggiunto. Forse un moto dell’animo, chi lo sa. O altro.
L’indignazione delle deputate ha una motivazione, secondo una “indignata” riflessione di Nazione siciliana. «Nella scorsa legislatura – ricorda Rino Piscitello – nel Parlamento italiano quasi il 60% dei parlamentari eletti nei cinque stelle (175 su 333), ha lasciato il partito e cambiato gruppo parlamentare. E all’Assemblea regionale siciliana nei cinque anni della passata legislatura hanno fatto la stessa scelta ben 9 deputati su 20. Nessun partito italiano ha avuto nella sua storia un numero di abbandoni così rilevanti come il M5S».
Ma cosa succederebbe se sanzionata l’abbandono del gruppo parlamentare o consiliare nel quali si è stati eletti? Chi vuole che le cose restino come sono, ricorda che sarebbe come sancire la sottomissione dei deputati agli ordini del partito.
Chi sostiene la fine del vincolo di mandato, invece, pone l’accento sul fatto che i voltagabbana tradiscono la volontà degli elettori. Se gli abbandoni e le migrazioni non appaiono spesso suggerite da valori non negoziabili, le bandiere dei capipartito sono diventate banderuole, e a non rispettare la volontà degli elettori sono frequentemente proprio i leaders. Le promesse della campagna elettorale, in cartaceo o altrove, non hanno più valore…legale. Una consuetudine da rispettare.
Torniamo a Gela, città popolata di cacicchi piuttosto che da cani sciolti. Sono proprio loro, i cacicchi, locali regionale o nazionali non importa, a sdoganare i voltagabbana. Con quale coraggio si pretende il rispetto del mandato elettorale, se un mandato elettorale non l’hai e non te lo puoi nemmeno inventare?