Quella bandiera a mezz'asta, con il lutto nazionale a reti unificate, piuttosto che aiutare la causa della beatificazione, ha impoverito la compassione.
Sbagliata perché fuori misura: una gerarchizzazione offensiva (post litteram) dei nostri morti e del nostro passato. Scorrendo le pagine di storia patria, il Pantheon del centrodestra, che ha accolto Silvio Berlusconi, merita di meglio e di più.
Misurando gli eccessi con animo sereno, basti ricordare che nemmeno la Santa Sede è riuscita a beatificare i suoi Pontefici in tempo reale; l’invocazione, “Santo subito”, ha aleggiato sul sagrato della Cattedrale di San Pietro e Paolo dopo la morte di Giovanni Paolo, amatissimo e rispettatissimo da amici ed avversari, senza tuttavia tradire le regole millenarie.
Questa premessa la devo ai lettori, perché abbiano chiara cognizione di come la penso e valutino il mio contributo nel territorio delle opinioni, ma non in quello dei fatti, che esporrò essendone testimone, grazie ad un incontro, difficile da dimenticare, con Ennio De Concini, regista e sceneggiatore, Premio Oscar nel 1963 con Divorzio all’italiana.
Prima di avventurarmi nella narrazione dei fatti, tuttavia, vorrei ricordare il contesto in cui avrebbe svolto la sua opera messianica Silvio Berlusconi. Resto lontano dai giudizi personali, devo rispetto ai beatificatori (in buona fede). Penso che il successo di Berlusconi sia figlio, come sostiene l’editorialista Lino Patruno, di un patto fra il Nord privilegiato e arricchito e il sud assistito, in cambio di voti. “Vi diamo da vivere e ci votate”.
Gela ha dato prova, proprio lo scorso anno, di quanto onorasse questo patto al punto da rimandare in Parlamento la senatrice Michela Brambilla, che non aveva partecipato a nessuna seduta d’Aula nel quinquennio precedente. I gelesi hanno premiato il peggiore dei candidati possibile per obbedire alla volontà del Cavaliere. E’ un test inequivocabile, grazie al quale gli elettori gelesi competono con i frati trappisti nell’ossequio alla divinità e nella contemplazione.
Non è il caso di crocifiggersi: il tasso d’importazione di senatori e deputati dal Nord e Centro Italia al Sud, bacino elettorale sicuro, segna una netta prevalenza sull’export di classe dirigente meridionale, almeno alle urne. Poi capita che la prima e la seconda carica dello Stato, Mattarella e La Russa, siano siciliani, ma è la legge del contrappasso, una sorta di ristoro all’asservimento delle tribù fidelizzate oltre ogni ragionevole dubbio.
La questione a latere che tanti si pongono per spiegare la nascita di una stella fissa nel firmamento politico italiano obbliga a domandarci che cosa spinga nel 1994 Silvio Berlusconi a scendere in politica, trasformando la sua azienda in una impressionante macchina di voti, gioiosa sulla carta quanto quella di Achille Occhetto, ma molto più performante e redditizia.
Le ipotesi che godono di maggior credito, ancor oggi oggetto di vivaci confronti politici, sono tre: la prima, sbandierata dallo stesso Berlusconi tante volte, e ripetuta addirittura in un video realizzato recentemente all’ospedale San Raffaele dopo un ricovero, è la più frivola, se vogliamo, “proteggere gli italiani dai comunisti”, usciti da Tangentopoli illesi, a differenza degli altri partiti storici; la seconda, negata da Berlusconi, è il salvataggio delle aziende da un governo avverso; la terza, che misura l’olfatto lungimirante del tycoon, è l’opportunità, Irripetibile, di rimpiazzare i partiti destituiti da mani pulite (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli).
Queste motivazioni, a mio avviso, non sono scindibili; si può semmai gerarchizzarne la rilevanza maggiore o minore di ciascuna, e farne oggetto di vivace dibattito e di manipolazione politica da parte degli estimatori e degli odiatori di Berlusconi.
Provo ad uscire dal ventaglio di ipotesi inevitabilmente divisive, raccontando come promesso, un episodio che in qualche modo possa aiutare a capire come e perché nasce l’uomo che per trenta anni condiziona, comunque lo si veda, la vita della nazione da ogni angolazione possibile - economica, politica, culturale e sociale - grazie al ruolo di primo piano ricoperto nelle istituzioni del Paese (ben quattro volte capo del governo), e alla straordinaria macchina del consenso messa in atto con i canali televisivi ed i successi nel campo sportivo.
Alla vigilia del gran balzo, nel 1994, che si sarebbe concluso con il successo elettorale – tra l’altro il celeberrimo 61 a zero nei collegi elettorali siciliani a favore di Forza Italia – ebbi una intensa frequentazione con Ennio De Concini, al quale fui segnalato dall’editore della SugarCo, Attilio Trentini, che aveva pubblicato un mio libro, Il Mistero del corvo, dedicato alla tristissima vicenda che portò in tribunale il magistrato più efficiente della Procura di Palermo nella lotta a Cosa nostra, Alberto Di Pisa. Trentini suggerì a De Concini che avrei potuto suggerirgli il soggetto, o più soggetti, su cui lavorare per il film che era stato commissionato allo sceneggiatore dalla Fininvest.
Dopo un incontro con De Concini a Roma, mi trasferii su suo invito nel Viterbese, dove lo sceneggiatore aveva una deliziosa casetta, per una decina di giorni, durante i quali scrissi la stesura di un soggetto cinematografico che avrebbe avuto come protagonista il primo (e l’unico) vero pentito di mafia, Leonardo Vitale (sul quale avrei scritto successivamente L’Uomo di vetro per Bompiani). P
osi una condizione, doppia firma al soggetto: più che la retribuzione, ero interessato alla possibilità di entrare nell’esclusivo mondo della scrittura per il cinema. De Concini mi raccontò tante cose, soprattutto sulla sua permanenza ad Hollywood e vizi e virtù dei personaggi celebri del cinema americano.
Alla fine di ogni giornata, immortalavo in un diario che a quel tempo compilavo con maniacale puntualità, ogni rivelazione (mai utilizzata). Ma la informazione più utile che ebbi da De Concini riguardava il suo rapporto con la Fininvest (non so se fosse già nata la Medusa, fondata dal Cavaliere). Ebbene, a De Concini era stato staccato un assegno di centocinquanta milioni per la progettazione del film. Cosa fatta, insomma.
Qualche mese dopo, contrariamente agli accordi, Ennio mi chiamò per chiedermi quanto serviva per inviarmi un bonifico di dieci milioni, che era una bella cifra a quel tempo, ma mi scontentava per via dell’impegno professionale che non veniva onorato. Supposi, comunque, che il soggetto ed una prima traccia della sceneggiatura, realizzata a Viterbo, sarebbe stata utilizzata ed il film sarebbe andato in produzione. Non fu così, invece.
Trascorse del tempo, non saprei precisare quanto lungo, e lo sceneggiatore mi informò, desolato, che il film non si sarebbe più fatto. Il Cavaliere, mi riferì, è in mutande, o qualcosa di simile, e rischia il fallimento. La notizia mi sorprese non poco, Berlusconi era in gran spolvero, e i suoi canali televisivi macinavano pubblicità, o almeno così mi pareva, sulla base delle mere sensazioni di utente televisivo.
La discesa in campo, come sappiamo, cambiò le cose. Il Cavaliere inghiottì una parte cospicua dell’editoria nazionale, entrò a gonfie vele nel settore bancario con Mediolanum, ed altro ancora. E il conflitto d’interesse ebbe il suo peso, come non mai in quel frangente, i conti delle aziende berlusconiane abbandonarono i brutti tempi.
E non c’è bisogno di sospettare chissà che cosa per comprenderne le ragioni, visto che la clientela che conta non poteva certo trascurare i canali commerciali del Capo del governo nella pianificazione pubblicitaria. Di Ennio De Concini persi le tracce, a causa anche di suoi problemi familiari segnati pesantemente dalle condizioni di salute del figliolo, cui dedicò un libro.
Se mi fosse chiesto, dunque, che cosa spinse Berlusconi a scendere in politica, non esiterei: la necessità di aiutare le sue imprese a rimettersi in pista. Ma sbaglierei, perché non terrei conto della personalità del Cavaliere e delle mille sfaccettature della sua natura, ben descritta nella imperdibile omelia dell’Arcivescovo di Milano, Monsignor Mario Delpini, così sobria e così laicamente priva di compromessi da non poter essere strumentalizzata da alcuno.
Non tenere conto del narcisismo e delle ambizioni di Silvio Berlusconi, sarebbe dunque sbagliato: ha fatto ciò che gli piaceva fare, come ha energicamente sostenuto Delpini, e qualche volta con tale sprezzo del pericolo (mi riferisco soprattutto alle compagnie femminili così folte) da procurargli molti guai.
So bene che c’è dell’altro, su cui varrebbe la pena di scrivere, ma la mia intenzione era, e resta, quella di offrire un contributo alla narrazione del personaggio, piuttosto che un giudizio sull’uomo. Prendendo in prestito le parole di un geniale scrittore, Stanislaw Jerzy Lec, avrei semmai ricordato al capo della Chiesa ambrosiana, in linea con il suo addio al Cavaliere, che il defunto era la coscienza del proprio tempo, che ne era privo.
Ove invece, dovessi suggerire, una “chiusa” ai disistimatori del caimano (è così che il cinema l’ha lapidato), mi limiterei a rammentare che i cannibali hanno in gran conto il genere umano, per spiegare l’affabilità e la generosità del Cavaliere.