Giovani accampati davanti alle loro Università nelle grandi città? Fanno tenerezza, e non solo.
Francesco li ha spronati: “non abbiate paura di sognare”. E prima di lui Martin Luther King, prima di essere ammazzato. Altri tempi, vero; ma perché non sognare un accampato davanti al Municipio di Gela.
Uno solo, per carità; sarebbe sufficiente, di grande impatto, con la sua tenda canadese ed il cartellone innalzato al cielo come una durlindana, con la scritta: “Ce l’ho con tutti e tutto: con il presente, che fa schifo, il passato che non mi piace, e il futuro che non ho…” Vedo, come fosse davanti ai miei occhi, quel cartellone al fianco del marmo realizzato per omaggiare Salvatore Aldisio, diventato un pretesto per ricordare un manipolo di illustri sconosciuti (figuriamoci in futuro).
Perché tanto malanimo, vi starete chiedendo. Non so rispondere, o meglio non posso certo spiegarvelo con l’incolpevole mese di maggio, che più miserabile non potrebbe essere. Invece che onorare i trascorsi prestigiosi – festa dei lavoratori, il referendum sul divorzio, la sconfitta sul nazismo, l’approdo dei Mille a Marsala – sembra ricordare altri anniversari: il brevetto della Coca Cola, dei blue jeans e del nastro adesivo.
Pensateci: il 5 e il 6 maggio abbiamo regolato l’orologio con il Meridiano di Londra, che per l’occasione era tornato al Medio Evo, mostrando l’incoronazione di Re Carlo, e con l’orologio di Arcore, sede della monarchia italica, che segnava le ore nell’ospedale San Raffaele per farci ascoltare Silvio Berlusconi mentre intona un surreale grido di battaglia contro i comunisti, così rari da contendere il primato ai Panda cinesi.
Poi c’è dell’altro, che ci interessa più da vicino ed ha fatto scoccare la scintilla del malanimo. La fine del trio; il trio vocale Lescano della politica italiana. Non scrollate le spalle, sono cose che possono infierire dolorosamente sull’umore. In versione western erano la Trinità, pistoleri virtuali del consenso, body guard di Beppe Grillo e della sua ombra, il guru Casaleggio con il mito di Re Artù; “il volo”, prima del Volo, campione di libertà scapigliate:
Gianfranco Cancelleri (nella foto con i parlamentari gelesi Lorefice e Di Paola), Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Attraversavano la Sicilia mietendo successi come folate di scirocco, mentre Beppe Grillo conquistava l’isola a bracciate, con una traversata perigliosa in tuta sub nello Stretto, e si mostrava nelle piazze, affollate e contente di assistere allo spettacolo senza pagare il biglietto.
Il trio, terzetto, triade, triangolo, saliva sul palco, scandendo i tempi dell’applauso e del tripudio. Una festa. Il vaffa nordista, partito da Torino e pianificato a Genova, allagava la penisola. Beppe conquistava l’Isola con la stessa nonchalance di un altro Beppe, mitico eroe dei due Mondi, approdato a Marsala.
Gela è la prima, e la più importante città del Sud, a subire la seduzione, adottando, senza saperlo, il “vaffa”, entusiasta e felice. Finalmente sarebbe stato rimosso il jurassic park politico disfunzionale. Sollecitata dal magazziniere-geometra Cancelleri, improbabile condottiero e parlamentare a furor di popolo, garante della “pulizia” ideologica e comportamentale, la città affida la rivoluzione grillina a Domenico Messinese, che non è proprio un rivoluzionario, ma semplicemente un galantuomo un po' spaesato, a malpartito da subito con i suoi compagni di cordata; e se lo fosse stato, non sarebbe cambiato nulla.
Invece che farsi largo a bracciate nel mare della quotidianità gelese inossidabile, Messinese compie la sua traversata nel deserto, cercando di indovinare il senso di marcia che le dune geloe scelgono, sospinte dal vento caldo del Sahara, come accade da venticinque secoli.
Messinese finirà sulla griglia dell’inquisizione interna, fino all’espulsione dal Movimento; i tre assessori da lui licenziati – Lorefice, Damante e Di Paola – guadagneranno gli scranni parlamentari. Danno e beffa!
Sembra preistoria, ma non lo è. Il tempo si è fatto rapidamente memoria, e questa ha sorpassato i fatti, fenomeno che la politologia cattedratica cerca invano di spiegare, lasciando il discorso a metà e aprendo così spazi impensati al fumetto politico.
E’ accaduto che la Trinità si sia trasformata in blasfemia, il terzetto sia imploso, i virtuosi plaudenti body siano andati dove li portava il cuore e le incombenze della sopravvivenza. Luigi Di Maio, abbandonato il mentore, Beppe Grillo, ha affrontato la stagione di Mario Draghi con la lealtà di Nino Bixio durante la presa della Sicilia. Concluso il mandato di ministro degli Esteri, ha ricevuto l’incarico di inviato speciale dell’UE nel Golfo Persico, come premio fedeltà.
Con l’indulgenza dovuta a un caso umano ed ai buoni uffici dell’ex Primo Ministro (è una mia illazione), non è stato lapidato. Nessun trauma, quindi; il vaffa è stato declinato con sorprendente naturalezza con il whatever it takes del banchiere prestato alla politica, funzionando a meraviglia, sorprendentemente. Oggi Di Maio fluttua nelle periferie della diplomazia, atteso alla prova, dietro la siepe, dalla burocrazia della Farnesina, che non ha affatto gradito l’invasione di campo.
Alessandro Di Battista, il più inquieto del trio, nell’immaginario collettivo, il sub-comandante Dibba, il zapaturista per le sue escursioni nell’America Latina, è oggi un ospite fisso, per tremila euro a puntata, di Giovanni Floris nel talk show “Di Martedì” della 7, dove congettura, dibatte, duella, si confronta, coniugando faticosamente il “vaffa” con il rispetto che si deve alle reliquia della chiesa a 5 Stelle spodestata e umiliata dalla borghesia del “professore”, Giuseppe Conte, un aristocratico anche nel nome, sideralmente lontano dal movimento scapigliato che fece sussultare l’Italia.
Tertium datur, è Giancarlo Cancelleri. Il “nostro” Giancarlo Cancelleri. E’ venuta da lui la scossa, con il suo ingresso alla Corte di Arcore, per procura. Era il sopravvissuto della triade, il depositario di un cursus honorum senza eguali in Sicilia, grazie agli incarichi ministeriali ed alla candidatura alla presidenza della Regione.
Da Beppe Grillo al re di Arcore, acciaccato e spedalizzato, senza soluzione di continuità: un salto, dettato dalla disperazione che solo la solitudine politica giustifica, all’indomani dei fasti di una stagione generosa? Chi lo sa: il movente potrebbe trovarsi a Palazzo d’Orleans, dove il viceré di Sua Maestà Silvio, Renato Schifani, sgomita per prendersi la corona, molto contesa.
Fa parte di un pacchetto confezionato dal presidente della Regione, insieme a Caterina Chinnici. Carta di credito ed insieme attestato di buone pratiche, che il Cavaliere dovrebbe apprezzare. C’è però il quid insondabile che ha mandato all’aria ogni delfinato e manca il parere della regina (quasi) consorte, Marta Fascina. Una strada infida.
Anche Caterina Chinnici è stata vissuta come una scudisciata al volto dalla sinistra votata ai culti. Clemente Mastella, a proposito di Caterina Chinnici, ha rivelato in una recente intervista un episodio di indubbio interesse. Già nel 2008 l’ex magistrato e figlia di Rocco Chinnici, avrebbe accettato una proposta di candidatura nel centro destra.
Un episodio che fa il paio con l’esperienza governativo nel Gabinetto regionale guidato da Raffaele Lombardo. L’indignazione e la sorpresa dei ben pensanti, che ne hanno fatto oggetto di venerazione, con risultati molto modesti, per potersi nascondere dietro i loro fallimenti, meriterebbero la gogna mediatica, piuttosto che la compassione. Come si fa ad essere indulgenti?
Ecco, vi ho spiegato perché vorrei vedere accampato in Piazza Municipio a Gela un gelese che protesta contro le cose come sono e non cambiano mai. Accanto al Marmo di Salvatore Aldisio, beninteso.