Il consigliere comunale accigliato, ma non troppo, ha preteso la quarantena: il rinvio di 40 giorni prima del pronunciamento sulla sfiducia del sindaco in carica, Lucio Greco.
E siccome il parere del guastafeste è determinante, la proposta non può essere disattesa, sicché la spada di Damocle resta appesa sul capo del primo cittadino, in attesa di eventi. Quali? Non lo sapremo mai; ma non penso che l’eventuale patto di non belligeranza, armistizio o un semplice gentlemens’ agreement, possa preludere ad una svolta nella governance della città.
Il conflitto fra consiglio comunale e sindaco è annoverato ormai fra i riti propiziatori della politica politicante; arriva il momento, a due terzi del mandato, in cui c’è qualcuno che cerca di tirare i remi in barca e “monetizzare”, in senso metaforico, la sua presenza. Qualche volta è la ricerca della visibilità, qualche altra una risposta a lungo attesa o una banale omissione a far scattare la scintilla e creare il conflitto, aprendo la “quarantena”.
A Gela la liturgia della “sfiducia” è stata altre volte recitata. Con Saro Crocetta e il sindaco pentastellato Messinese: nel primo caso, l’accorto capo dell’amministrazione aggiustò le cose grazie al soccorso del capo dell’opposizione; nel secondo, dopo una lunga agonia, il sindaco in carica ha dovuto fare le valigie e i 5 Stelle, con il vento in poppa, hanno ammainato le vele, entrando nella grande famiglia dei partiti litigiosi, instabili, inaffidabili.
Ciò che accade oggi a Gela, insomma, sta dentro la crisi di governance dei comuni. Una crisi strutturale, che l’elezione diretta del primo cittadino, inaugurata in Sicilia negli anni Novanta, prima che nel Paese, non ha saputo curare; anzi, ha aggravato in qualche misura. Non si fronteggiano ora solo maggioranza ed opposizione, partiti e programmi, ideologie, lobbies e corporazioni, ma anche gli organi istituzionali: esecutivo e assemblea.
Quando il consiglio comunale è stato scippato della sua arma più efficace, l’elezione del sindaco e della giunta, e gli amministratori sono stati scelti off shore, il massimo consenso civico ha sperimentato gli strumenti che restavano per recuperare, per così dire, l’autostima. Sono affiorati spirito di revanche e frustrazioni, opzioni radicali, bisogni inappagati, legittimi o meno. Il consiglio comunale oggi fronteggia l’esecutivo a prescindere, e non c’è appartenenza che tenga, niente riesce a creare le condizioni per una proficua collaborazione fra i due rami dell’istituzione.
Il bilanciamento dei poteri, che il legislatore ha cercato di attuare, non è stato raggiunto, a mio parere, a causa di una antica consuetudine alla conflittualità, che ha messo radici con la nascita della Repubblica, segnata dalla esclusione di alcuni schieramenti politici – comunisti e postfascisti – dalla governance. Il fattore K, il comunismo, ha richiesto in particolare regole assembleari che facessero entrare dalla finestra ciò che non poteva entrare attraverso la porta: e cioè poteri di governance assegnate alle assemblee. Non ci si è adattati, insomma, alla separazione dei poteri. Ma questa è solo una delle motivazioni, e forse la meno influente.
Una parte non indifferente, dietro le quinte (ma non troppo), l’ha recitata anche la emigrazione, frequente e decisiva in alcune circostanze, dei rappresentanti del popolo – consiglieri, parlamentari ecc. – da un partito all’altro con una nonchalance davvero sorprendente, e la pratica del cecchinaggio, il fuoco amico contro il governo, qualunque fosse il colore politico.
I franchi tiratori hanno preceduto (e preparato), al tempo delle forti appartenenze, la conflittualità endemica fra assemblea ed esecutivo. L’esercizio delle funzioni di democrazia indiretta non sono state accettate.
Oggi la mozione di sfiducia, per il suo già visto, è divenuta una banalità, una scaramuccia, un braccio di ferro: oltre che mostrarci la realtà per quella che è, questa liturgia parrocchiale ci interroga sul declino del sistema, così come esso viene percepito, usato, accettato, e sulla qualità della rappresentanza politica. Il contesto è così deteriorato da farci trascurare le responsabilità individuali, se cioè nella fattispecie il sindaco – di Gela o Forlimpopoli – meritino o meno il trattamento che il consiglio comunale gli riserva; o, al contrario, se sia piuttosto il consiglio comunale, nella sua interezza, responsabilità oggettiva, a meritare di essere cacciato dagli elettori che lo hanno voluto così com’è.
La banalità è peggio del male? Qualche volta sì, lo è; i futili motivi aggravano il peccato e il reato, lo rendono intollerabile, oltre che un errore politico. La passione, che consuma lo spirito, ci fa capire, se non giustificare, l’errore. Perfino l’aspetto notturno, generoso e terribile, di una congiura, la volontà di un potere inflessibile e divorante, dominatore e tirannico, regalano gravità e intelligenza, al male.
Premeditare freddamente il piano di demolizione dell’avversario politico, richiede che si preparino altrettanto freddamente i mezzi per celarlo, nascondendo aspirazioni, obiettivi lungimiranti, svolte radicali. Ma qui l’impressione prevalente, è di assistere ad una lite fra comari, che si fronteggino dai balconi, senza riuscire ad essere ascoltate da chi, sul piano della strada, affaccendato, ha mente solo per gli affari propri senza alzare gli occhi.
Avrei potuto, forse dovuto, compilare giudiziosamente il quaderno delle lamentele e sottoporlo al vaglio del lettore per analizzare le fondamenta della mozione; non avrei dovuto penare soverchio, per elaborarlo, ve l’assicuro. La pena che mi divora è lo scarto fra la vivacità che osservo di una comunità in gran tempesta, e l’assenza siderale del nocchiero.
Spero che l’omissione non mi schieri da alcuna parte. Il fatto è, che il teatro di cartone della politica sbatte in faccia l’inaccettabile: mostra Giancarlo Cancellieri, nemico numero uno di Berlusconi, che sventola la bandiera di Forza Italia, e Caterina Chinnici, eletta e rieletta nel Pd, che lo segue a breve distanza, senza sentire il peso di un gesto così lontano dal “mito” che l’ha trascinata, senza merito, in politica. Sono attori di una commedia all’italiana che ci fa accettare perfino la lite fra comari che la (presunta) mozione di sfiducia ha messo in scena a Gela.