Approssimativamente a metà degli anni cinquanta – la memoria non va più in là di questa vaga indicazione – ricevetti il battesimo.
L’iniziazione alla politica non è avvenuta con l’acqua santa né davanti alla fonte battesimale, ma ad un insolito manifesto affisso sul Corso Vittorio Emanuele di Gela, stampato a caratteri grossi e neri, tanto che da lontano, questo sì che lo ricordo, sembrava un annuncio funebre.
Mi sono guardato allo specchio e ho visto che non ho rubato, non ho tramato contro nessuno, non mi sono arricchito… Così cominciava. Poi tutta una serie di peccati capitali che l’autore dello scritto giurava di non avere visto guardandosi allo specchio. Un j’accuse, una requisitoria. Il manifesto comunicava al pubblico che il suo autore non doveva battersi il petto per alcuno dei peccati elencati in una lunga lista.
Che cosa aveva voluto far sapere il suo autore? Il suo era uno specchio ustorio che bruciava i malandrini della città senza mostrarli. Qualcuno si guardava allo specchio e non vedeva in lui il ladro che denunciava. A quell’età, ero appena uscito dall’adolescenza, non si è svelti nella codificazione del linguaggio politico astruso e diffidente verso il prossimo. Non trovando risposte al mistero dello specchio, puntai la mia attenzione sull’autore, che lo firmava, Fischietti. Era un avvocato gelese di gran nome, tanto da essere ricordato sulla toponomastica cittadina. Per raggiungere il Corso Vittorio Emanuele da Via Cairoli, dove abitavo, percorrevo una stradina, che si chiamava per l’appunto Via Aldisio Fischietti.
La paternità del manifesto ne fece crescere la rilevanza ed acuì di conseguenza, la curiosità, ancora inappagata. Quel j’accuse strabico tra l’altro non portava simboli politici, né era rivendicato da associazioni, enti, istituzioni.
Non restava che ricorrere alle conoscenze dei miei genitori per saperne di più. Da mia madre o a mio padre non avevo mai ascoltato una sola parola che richiamasse episodi o personaggi politici. Faceva eccezione mia zia, sorella di mia madre, che mi aveva detto e ridetto cento volte di avermi portato con sé dentro la cabina elettorale, da bambino, e avermi fatto apporre una croce sul simbolo dell’Uomo Qualunque, il trombone.
Di conseguenza il primo voto, a mia insaputa, a suo dire, portava il suggello di una fronda populista e, secondo i politologi del tempo, e di nostalgici del ventennio, orfani del Duce e privi di partito. La scelta qualunquista era stata suggerita dal marito di mia zia, che, volontario, s’era fatto tutte le guerre di Mussolini in camicia nera, dalla Spagna all’Africa e alla Grecia, tanto da guadagnarsi in famiglia l’appellativo di “ultima raffica”. Ma questa è un’altra storia, sulla quale conto di tornare un’altra volta.
Bisognava dipanare il mistero. Chi era l’autore di gran nome che si guardava allo specchio e non si riconosceva nei malfattori che affollavano la sua città? Mio padre, parco come sempre di parole, mi informò che era il nostro avvocato di famiglia e aggiunse, aggrottando le ciglia, per regalare solennità alle parole: “uomo dabbene e grande avvocato”.
Ma questo non spiegava l’astruseria del manifesto, che perciò aveva bisogno di un supplemento d’indagine. Elaborai in solitudine la logica controversa che sottintendeva il testo. L’avvocato Fischietti, da uomo di legge, aveva usato uno stratagemma lessicale per non incorrere nel reato di diffamazione. Gli “imputati” di malefatte varie, salivano attraverso lo specchio, incolpevole, sul banco degli imputati senza carta d’identità, ma era come se avessero nome e cognome, a giudicare dal numero di addebiti mossi, talvolta con qualche dettaglio, dunque riconoscibili. In ogni caso, “a buon intenditor poche parole”. In una piccola città, come Gela, specie nella cerchia della buona borghesia locale, tutti sapevano degli altri vita morte e miracoli.
Il manifesto era però ben più che un piccolo episodio di una guerriglia urbana fra politicanti, si trattava di un evento epocale, perché colpiva, indirettamente, l’allora dominus della città (e non solo), Salvatore Aldisio, cui veniva addebitato di allontanare dalle stanze dei bottoni quanti avrebbero potuto oscurare la sua “cattedra”.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Le motivazioni, tutto sommato, banali, facevano velo ad un episodio che scuoteva l’apparato della Democrazia Cristiana, preludendo ad una scissione, la prima, vissuta in Sicilia dal partito, con la nascita di una nuova formazione politica, che si sarebbe chiamata Biancofiore e sarebbe stata, in qualche modo, antesignana di una scissione ben più rilevante, promossa da Silvio Milazzo, calatino come Mario Scelba e Luigi Sturzo. Lo stupore era dunque, più che giustificato: la fronda dc esplodeva, virulenta, nella città natale di uno dei padri fondatori del partito. Aldisio veniva affrontato a viso aperto nel suo feudo politico indiscusso, e con indubbia audacia, da un manipolo di personaggi autorevoli.
Eppure, non fece notizia. E non certo a causa di un atteggiamento omertoso o di una congiura del silenzio. La cronaca locale non aveva spazio sui giornali. Siamo negli anni cinquanta, il manifesto era un prezioso mezzo d’informazione, per molti forse l’unico; leggere un giornale era una virtù di pochi.
La lettura dei manifesti, nessuno escluso, era una liturgia cui mi sottoponevo volentieri. Mi piaceva leggere tutto ciò che mi capitava sotto gli occhi durante le passeggiate con i miei amici sul Corso e dovevo perciò difendermi dai loro rimproveri, perché non sopportavano quegli stop and go appesi ad un foglio di carta appiccicato al muro che per loro era meno che niente.
La requisitoria dell’avvocato aveva qualcosa che non c’era sui libri, non si ascoltava a casa né a scuola. E’ così che cominciò ad affascinarmi la folla assiepata davanti ai balconi dei comizianti, gli sguardi rapiti degli spettatori, quegli applausi fragorosi che promuovevano i toni alti del discorso politico. Era lo scenario più che i contenuti a suscitare l’interesse.
Non è che a quel tempo ci fosse tanto altro, in verità. Calcetto da tavolo, passeggiata, partite a carte. La Gela sonnolenta e paesana del dopoguerra si svegliava per l’arrivo di un semaforo in un incrocio o una “truvatura”, misteriosi ritrovamenti di vasi greci colmi di monete antiche che facevano la fortuna di qualcuno. Piccoli tesori che venivano allo scoperto durante fortuiti scavi dei quali si sussurrava sottovoce come fossero segreti da custodire ad ogni costo.
Del manifesto dell’avvocato e della sua guerra, persa, a Salvatore Aldisio, e del partito-meteora, Biancofiore, non ne ha mai scritto, né parlato alcuno. E sarebbe stato ignorato per sempre se non si fosse depositato nella mia memoria, lasciandomi la percezione di una iniziazione frettolosa alla politica, carica di suggestioni e di illusioni. Venne troppo presto e male, dunque, visto che ha segnato in qualche modo il mio futuro.
Mi ero davvero allontanato dalla diritta via? Me lo domando ancora oggi e non trovo una risposta. Sento di sicuro il rammarico del tempo, troppo lungo, dedicato alla politica politicante. Mi ha distolto dalla lettura e dallo studio e non è stata maestra di vita.
La politica si capisce solo quando uno ce l’ha addosso, a mio avviso. Condannarla o assolverla sarebbe da stolti. Fra Aristotele ad Andreotti il passo è lungo.
(* Gelese, l’autore di questo articolo è stato docente di lingua Inglese a Gela, direttore del Servizio Stampa e Comunicazione dell’Assemblea regionale siciliana. E’ giornalista professionista e autore di saggi e romanzi)