Due pareri di competenti commentatori e attori della storia di Gela hanno reso palese un tema cardine del governo della nostra città.
La settima per demografia regionale. L'intervista di Lillo Speziale e il successivo commento di Salvatore Parlagreco, sulle pagine del Corriere, hanno posto e valutato un tema che si può riassumere con le seguenti due affermazioni: nessuno si interroga sulla profondità della crisi di Gela dopo la chiusura della raffineria da petrolio e, la seconda affermazione, la necessità di una coalizione trasversale che rifugga dagli schemi di destra, centro, sinistra, anzi centrodestra, centrosinistra e 5S. L'invito è mettere insieme le migliori forze e risorse cittadine che sappiano decidere il destino di Gela, afferma Speziale.
Affermazioni basilari, anzi fondative, ma rivelatrici di un cambiamento epocale nel fare politica. Anzi, come ho scritto in un precedente articolo sul Corriere, un segno che la politica è morta. Per come la conoscevamo la politica non è più di casa a Gela. E non occorre scandalizzarsi perché, se ciò accade, è per cause storiche e sociali che lo hanno determinato. Occorre invece scandalizzarsi del fatto che non vengano riconosciute le cause, determinando propositi che rischiano di essere irreali.
È vero che nessuno si interroga sulla profondità della crisi economica di Gela, che significa interrogarsi in merito agli inneschi della crisi e domandarsi se questi inneschi sono interni o esterni, controllabili o parzialmente controllabili, gestibili o parzialmente gestibili, utilizzabili o non utilizzabili. Questo significa interrogarsi sulla crisi di Gela. Senza rispondere a queste domande la ricerca di un personaggio che ami la città e dia soluzioni è mera illusione, al limite un auspicio.
Gela deve risolvere il blocco mentale che si porta dietro da troppo tempo e lo riassumo così: nessun gelese o collettività di gelesi può determinare le sorti della città nel futuro, oggi è la geopolitica che decide le direzioni, le quisquilie amministrative contingenti vengono lasciate alle dinamiche municipali, peraltro senza una chiara volontà collettiva. Pensare questo per un gelese è difficile, impossibile. E pensare questo ribalta, non inibisce il quadro dell’azione. Significa lavorare non per determinare un futuro ma per cogliere opportunità. Cavalcare fatti e situazioni che possono lentamente trasformarsi in occasioni per Gela. Ma questo cozza con il sentimento di onnipotenza che ogni gelese ha ereditato dai consimili.
L'esperientissimo Lillo Speziale si appella ad un approccio trasversale in politica e invita a ricercare le migliori forze e risorse cittadine. Ma, mi sia consentito, questo non è più un appello politico, è e diventa un appello tecnico-amministrativo, direi quasi consulenziale. Non riesco ad essere d’accordo con tale impostazione, forse sintetizzata eccessivamente da parte di chi, come esponente del mondo cittadino e politico, può, a mio avviso, ancora dare molto alla città. E per chiarire occorre interrogarsi sulla fine che ha fatto la coscienza di classe, cara alla storiografia sociale di un pensiero politico fondativo del Pd, in un ragionamento che, escludendola a piè pari, rischia di approdare alle logiche più aziendaliste e liberiste reinterpretate in chiave civica.
Mi spiego. La coscienza di classe era il requisito civico del pensiero politico della sinistra del novecento. E aveva retto fino a quando il nuovo millennio non ha visto assumere, al cittadino, la duplice veste di consumatore e lavoratore. Il novecento era popolato prevalentemente da lavoratori, era lo status prevalente nella coscienza collettiva e le classi sociali erano rette da ruoli lavorativi limitati nel numero ma molto popolati di lavoratori. Le masse erano una componente dello scenario sociale del novecento. Essere consumatori e lavoratori insieme, assetto incontrovertibile del nuovo millennio, ci porta a chiedere servizi veloci e a basso costo che inducono a forme di sfruttamento indirette sul lavoro.
Come lavoratori invece rivendichiamo tutele, diritti e potere d'acquisto. Ognuno di noi, in questo secolo, vive la dicotomia del "padrone" e del "salariato" all'interno della propria individualità. La varietà e la parcellizzazione dei ruoli lavorativi ha dato l'ultimo colpo all'assetto per classi sociali, ormai non più identificabili con pochi raggruppamenti di masse sociali. Ognuno rivendica un ruolo sociale che origina dal ruolo lavorativo, pensato come un valore sociale. Insomma, l'elemento della coscienza di classe, che assicurava una finalità dell'azione politica e conseguentemente una comunanza di fini, è definitivamente cessata. Il succedaneo che è stato trovato è quello di appellarsi al merito, alle "migliori risorse cittadine". Dimenticando che il merito è arnese estremamente complicato da manovrare.
Per chi non lo sa, il "merito" come tecnica (prima di diventare un valore) viene messo a punto da David McClelland, pioniere nel campo delle competenze, nell'ambito del McBer/Hay Group; tali studi furono poi portati avanti dai coniugi Spencer (il marito era Ceo della McBer Company) negli anni '90 per consentire alle aziende innovative del mercato Usa di "collocare la persona giusta al posto giusto", garantire la produttività più alta ai costi più bassi.
Il merito, peraltro, richiede sempre un valutatore o un metodo di valutazione e pertanto innesca il quesito: chi valuta il valutatore?
Questa breve digressione serve per dire che l'affermazione che mira ad appellarsi alle migliori energie, sottintendendo le competenze al posto del potere politico, lascia il tempo che trova perché annienta la coscienza di classe (morta di suo con il nuovo millennio) per approdare ad un requisito industriale nato per mettere al posto giusto la persona giusta. Che significa ridurre la politica a pura macchina di efficienza in una direzione che altri stabiliranno.
Questa strada, come si può ben capire, nega la politica, perché la politica sceglie direzioni anche in regimi di non efficienza, sceglie opzioni future, coglie opportunità, aggrega competenze quando servono, trova sintesi quando si presentano dilemmi, decide sempre anche se l'obiettivo posto si allontana. La politica è qualcosa di diverso dalle competenze, pur avvalendosene. Ecco perché l'appello diventa trasversale, proprio perché non è più politico, sottovaluta la direzione da dare alla prospettiva (che non è uguale per tutti gli attori della trasversalità). Qual è allora il requisito su cui basare l'appello pre-elettorale per il governo della città?
L'appello, a mio avviso, è quello di ricostituire una coscienza, non più di classe ma di scopo, che enfatizzi non il merito ma il bisogno e che raggruppi risorse che non pensino al presente, ma che siano abituate a pensare in termini di decenni, di dinamiche, di inneschi. Che abbiano la coscienza di non essere onnipotenti in quanto gelesi, che sappiano che i destini della città dipendono da ciò che sta fuori la città e che l'azione locale è quella di gestire le interazioni, non negarle.
Quanta politica ha ruotato attorno alle polarizzazioni scaturite dal pensare incompatibili settori economici e lavorativi, dando per scontato che nessuna capacità di gestione potesse essere messa in campo per contemperare economie diverse, come accade in varie realtà nord-europee? Questa coscienza non so definirla.
Possiamo chiamarla civica, di cittadinanza, sociale o, mi piacerebbe chiamarla, socialista. Chiamiamola come vogliamo, ma, per carità, non riutilizziamo gli arnesi logori del neoliberismo competitivo applicandoli alla politica!
Ecco, ciò che è rimasto di politico è l’appello alla “trasversalità”, che sceglie (politicamente) che la politica deve smettere di esistere… a Gela.