Era il 1967 o 1968, gli anni in cui i giovani delle università francesi, seguiti dagli studenti italiani, ci informavano che le loro proteste non erano altro che un debutto, e avrebbero continuato a combattere.
Anni che, comunque la sia pensi, impressero un profondo cambiamento nella società (il terrorismo rosso e nero, ma anche una scuola più inclusiva ed una presa di coscienza delle ingiustizie sociali). In questa temperie, dalle nostre parti c’era una questione che agitava i cuori: Gela provincia e l’istituzione del tribunale. Questioni serie per uomini seri, vissute tuttavia come l’eterna disfida fra fratelli-coltelli, duelli di periferie rissose?
Il dato di fatto, incontrovertibile, è che a Gela imperversa negli anni ottanta il vento di Gela provincia. Un vento che arriva a folate, ma ritorna, puntuale e benevolo, pieno di promesse senza capo né coda, ma così pungente a sanguigno da far passare in secondo piano il petrolio di Piana del Signore.
Folate, tuttavia: si alza la voce, si scrivono articoli di fuoco, si ricorda un tratto di storia dimenticata, poi tutto torna come prima. Non è un vento di tramontana; il clima si surriscalda, come nelle giornate di scirocco; soffia nelle vigilie elettorali, dove c’è sempre qualcuno che la sa lunga, e sventolando la bandiera di Gela provincia alla testa del corteo dei postulatori.
Ebbene, durante quegli anni ottanta fatidici, il calatino Silvio Milazzo, eroe della secessione democristiana, leader dell’Unione Siciliana Cristiano Sociale, ex Presidente della Regione con un governo ibrido, che imbarca destra e sinistra, fresco reduce di un fallimento “vittorioso” (il milazzismo sconfitto entra nel vocabolario della lingua italiana a vele spiegate, come l’unico esempio di audacia della classe politica siciliana), propone nientemeno una provincia con due capoluoghi, Gela e Caltagirone, che chiama CaltaGela, raccogliendo pallide adesioni, frenate dalla diffidenza, dalla riluttanza per dovere subire una mutilazione, e dal celato, ma convinto dissenso dei partiti tradizionali, allora sovraccarichi di responsabilità e di potere, ma incapaci di guardare orizzonti piuttosto che definire confini e, per giunta terreno di turbolenza permanente per le contese territoriali fra leader.
Non sappiamo se il derby fra il calatino Mario Scelba, Ministro dell’Interno Dc, passato ingenerosamente alla storia per i celerini ed i manganelli, erede di una illustre covata “popolare” (madre della Dc) in cui spicca Luigi Sturzo, e Salvatore Aldisio, ministro dei Lavori pubblici e, soprattutto uno dei padri nobili dello Statuto speciale della Sicilia (di cui fu commissario straordinario per un breve tempo), abbia interferito negativamente nella formazione di un’accoglienza distratta e corriva, o l’esito sia tutto da addebitare alla cattiva fama del proponente, Milazzo, presso lo stato maggiore democristiano del tempo; certo è che la CaltaGela naufragò e di essa si persero le tracce.
Le motivazioni di quella strana idea, illustrate da Silvio Milazzo, e riferite in una intervista (a firma dello scrivente pubblicata sul quotidiano L’Ora) si sono perse per strada, e di esse non conservo memoria, talché si occorre ad indovinare per adombrarne i contenuti. Il margine di errore è sopportabile, affidarsi al contesto appare lecito.
Le due città, entrambe popolose, emergevano dal tunnel del declino con la ceramica (Caltagirone) e il petrolio (Gela), distavano l’una dall’altra appena trentacinque chilometri, mantenevano relazioni commerciali e di buon vicinato (con l’eccezione del pallone, causa di competizioni all’ultimo sangue), e avrebbero avuto tutto da guadagnare nel dividere a metà le incombenze territoriali, perché avrebbero indotto altri centri limitrofi a partecipare all’impresa, concorrendo all’istituzione di una provincia dotata di una omogeneità pari unicamente a Ragusa, non a caso l’ente intermedio di maggior successo nell’Isola.
Durante l’intervista Silvio Milazzo diede la sensazione di credere nella bontà della proposta e di considerare con attenzione l’antica propensione di Gela a situarsi nell’area catanese soprattutto negli scambi commerciali, culturali (università) e nelle iniziative, diciamo così, di intrattenimento (spettacolo). Gela ha amato Catania più di Palermo.
La CaltaGela, morta e sepolta sul nascere, è stata disseppellita da Gela in una circostanza recente, quando è stata richiesto il trasferimento di Gela dal Consorzio di Comuni di Caltanissetta a quello di Catania.
Una operazione condotta in superficie, perché non è stata formalmente ricordata dai promotori del cambio di Consorzio. Quale esito abbia avuto la richiesta è ben noto: l’Assemblea regionale siciliana si è messa di traverso; e perfino un referendum, svolto a Gela, a conferma di una volontà migratoria pressoché unanime, è stato disatteso, lasciando basiti per la plateale abiura di una legge votata dallo steso Parlamento siciliano.
Qualche domanda è legittima, come chiedersi da che cosa nasca il dissenso sanguigno del capoluogo, mai motivato. Perdute le zolfare, Caltanissetta ha lasciato che nascesse e crescesse una sorta di sbarramento, un rifiuto ad affrontare la questione, facendo prevalere la paura di una perdita irrimediabile per un’enclave interna dell’Isola, sprovvista di una economia e di buone ragioni, gemella di Enna.
La resistenza ha costruito sbarramenti politici insormontabili, che si sono avvalsi anche di complicità esterne al capoluogo. Nel tempo, grazie ad una presenza operosa della rappresentanza politica nissena, Caltanissetta ha perso la sindrome della perdita di ruolo perché ha visto sorgere una struttura sanitaria di buon livello, lontana dalla città più popolosa e vivace della provincia. I cavalli di frisia a difesa dell’esistente, tuttavia, non sono stati dismessi nel capoluogo.
E’ prevalso l’egoismo? Si è sbagliato a Gela nel far prevalere il campanile piuttosto che le motivazioni reali, cioè servizi efficienti e adeguati ai bisogni di una comunità di carenze ataviche? Di sicuro non sono stati rappresentati gli interessi comuni, quelli che hanno messo d’accordo altre province italiane “bifrontali”, dotati di due capoluoghi.
In Italia ci sono alcune province che hanno due capoluoghi. Questa situazione è nota come "doppia sede di provincia" ed è presente in alcune regioni italiane. L’esempio più noto è la provincia di Alessandria, che ha due capoluoghi: Alessandria e Casale Monferrato. Ci sono altri due esempi noti di province italiane con due capoluoghi: Massa Carrara e Forlì-Cesena.
La scelta di avere due capoluoghi - Massa e Carrara.- risale al periodo napoleonico. Nel 1829, la provincia di Massa fu istituita con Carrara come capoluogo. Successivamente, nel 1859, durante l'unità d'Italia, Massa venne dichiarata capoluogo. Tuttavia, nel 1861, Carrara fu nuovamente scelta come capoluogo. Questa situazione ha portato alla divisione amministrativa della provincia tra le due città.
L’altra provincia bipolare è quello di Forlì-Cesena. Anche in questo caso, la divisione della provincia in due capoluoghi è il risultato di scelte storiche. La provincia di Forlì-Cesena è stata istituita nel 1992 con la fusione delle province di Forlì e Cesena. In questo processo di unificazione, è stata decisa la doppia sede per cercare di bilanciare le influenze e garantire una rappresentanza equa delle diverse comunità nel territorio.
Le ragioni di questa particolare configurazione amministrativa possono essere storiche, geografiche o politiche. In molti casi, le due sedi sono state stabilite per bilanciare gli interessi delle diverse comunità presenti nella provincia. Potrebbe essere stata una decisione presa per mitigare tensioni tra città rivali o per garantire una distribuzione più equa delle risorse e dei servizi pubblici. In generale, la doppia sede di provincia è spesso il risultato di compromessi politici e storici che hanno tenuto conto delle dinamiche locali.
La presenza di due capoluoghi del resto riflette la complessità delle dinamiche storiche e politiche nelle rispettive regioni, con l'obiettivo di evitare tensioni e garantire una gestione amministrativa più equa.
Queste motivazioni non trovano riscontro alcuno nella provincia di Caltanissetta, dove si è preferito mantenere le cose come stanno, acuendo la rivalità fra il capoluogo e il comune più popoloso della provincia e fra i più popolosi dell’Isola.