Potrei sostenere impunemente che Chiara Ferragni, l’influencer più ricca di followers, ha predecessori illustri come il grande poeta tragico Eschilo, morto a Gela nel sesto secolo a.C.
Potrei anche affermare che la fortuna di Chiara Ferragni è legata al suo share ed ai formidabili indici di audience al pari di Eschilo e che il theatron greco deve ai followers il suo enorme successo e che, infine, è una costruzione artigianale dell’iperconnettività attuale su cui Chiara Ferragni ha raggiunto pazientemente il suo share grazie ad una attitudine talentuosa nell’acquisizione del consenso.
Potrei però sostenere tutto ciò forzando l’ordine naturale delle cose e semplificando in misura parossistica il carattere di personaggi ed eventi distanti ventisei secoli fra loro. Andare al di là delle frontiere conosciute pretende grande audacia, ma la posta tutto sommato vale la candela. Il rischio alto, la semplificazione il prezzo da pagare: essa offre una realtà “senza tempo”, il filo conduttore che guida la storia, nostra e degli altri, giogo da attraversare.
La carta vincente è la consuetudine alla comparazione che si raggiunge in un altrove giudizioso grazie a una full immersion sapienziale. Smarcandoci dalla realtà contingente ci si abitua a non accontentarci della visione parziale delle cose che ci stanno davanti e guardare a un orizzonte ampio che propone nuovi percorsi di pensiero e modi di vivere. La complessità non copia la realtà, la reinventa, e suscita il piacere della sfida. L’attitudine che questa virtù offre non è nativa né selettiva, non compie ingiustizie irreparabili alla nascita, regalando ad ognuno, entro certi limiti, la opportunità di raggiungere una meta.
Ciò premesso, posso farmi perdonare la blasfemia iniziale – fare di Chiara Ferragni una influencer al pari di Eschilo – ed affondare lo scandaglio nell’universo greco. Ventisei secoli or sono nasce, o meglio rinasce, secondo altri, dalle origini prettamente religiose e misteriche, la tragedia greca. Eschilo, che conosce come nessun altro il mestiere del tragediografo, porta a teatro migliaia di ateniesi, facendosi seguire dal popolo della città sapiente (Atene), conquistando letteralmente il centro della scena in un’epoca di grande temperie politica e sociale.
Il poeta cambia il mondo senza averne piena coscienza (probabilmente); nelle sue tragedie racconta divinità affatto giuste e misericordiose, coinvolte pesantemente nelle colpe e nei guai degli uomini. Ne deduce che sia impossibile pretendere dagli uomini amore e rispetto verso gli dei, ingannatori, stupratori, mandanti di delitti, responsabili di torti intollerabili, profondamente ingiusti.
Guardando le cose dalla nostra prospettiva, si potrebbe liquidare la questione con un consenso appena sussurrato verso Eschilo. Ogni persona di buonsenso avrebbe parteggiato a favore degli uomini angariati. Ma la prospettiva è strabica: il poeta vive in grumo di passioni che il teatro tragico scuote fino alle fondamenta, svegliando gli spettatori, talvolta di soprassalto, dall’atteggiamento passivo verso regole immutabili ed aprendo la strada alla voglia di conoscere se stessi.
E’ una scelta tutt’altro che scontata, essa cambia il modo di essere degli uomini, suscitando l’accettazione della sofferenza come mezzo di redenzione e espiazione, in definitiva come farmaco e cura. Lasciate la sicurezza dei porti e rimettetevi in mare, suggerisce Eschilo, incoraggiando gli ateniesi a liberarsi della tirannide e approdare alle prime forme di democrazia.
Il poeta dona speranze, talvolta cieche – è vero - ma il suo teatro parla al popolo, rende più uguali gli uomini, fa loro riconoscere i torti che subiscono meglio e più dei sacerdoti ed i politici del tempo, li induce ad assumersi la parte di colpe e responsabilità. Pur non essendo affatto tenero che i suoi concittadini e non risparmiando loro nulla, il teatro si fa medium universale del suo tempo. Lo share che conquista sfiora l’unanimità, l’audience raggiunge la vetta più alta. Le parole recitate dagli attori entrano nel linguaggio dei dotti, nell’agorà dei politici, nella quotidianità degli emarginati, sono ripetute e citate fuori dai teatri, sono temute e rispettate.
Non c’erano allora i panettoni da vendere, i Balocco della Ferragni per beneficienza, ma una vita finalmente degna di essere vissuta da guadagnare, libera dalle vessazioni di divinità ingannevoli e ingiuste.
Fatti salvi i buoni propositi ed il talento artistico (di Eschilo), il resto non appare così scandalosamente lontano dagli occhi volpini di Chiara. Entrambi, Chiara Ferragni ed Eschilo, non parlano (e scrivono) per cambiare il mondo. Ma i risultati raggiunti da Eschilo, e non dalla Ferragni, provocano una rottura del paradigma, un balzo di realtà, evento che si verifica poche volte nella storia dell’umanità, e quando si verifica lascia una impronta indelebile, mentre quelli guadagnati dalla Ferragni sono contingenti, ambigui, controversi.
Eschilo lascia l’impronta, pensate un po', anche a Gela, dove oggi vive una comunità che ha perso la sua storia per strada e questo rende più dolorosa la realtà. Colpa di predoni e basta?
A differenza di quel che viene rimproverato a Chiara Ferragni, non c’è un episodio, un fatto specifico che può essere addebitato alla comunità geloa (per richiamare Eschilo), Gela deve farsi perdonare una antica latitanza: appare timida spettatrice perfino estranea alle proprie vicissitudini, colpevole di ignavia. Lo sbarco degli Alleati nel 1943 e la scoperta del petrolio alla fine degli anni cinquanta non destano Gela dal suo torpore.
La polis di Eschilo, cioè Atene e non Gela (ma chissà, dei suoi tre anni a Gela sappiamo poco), non è né immaginaria né utopica, ma strutturata e concreta grazie a solide fondamenta (equilibrio, conoscenza, senso della misura ecc), tanto da resistere alla sudditanza delle divinità e alla tracotanza ed all’ambizione umana.
Sono stati i predoni, il deserto del tempo, o che altro?, a cancellare le tracce della tragedia? Lasciare i porti sicuri, affondare lo scandaglio in mare aperto, forse questa attitudine è mancata. Ed è davvero un paradosso che Gela, coprotagonista della storia della civiltà, oggi arranchi in balia agli eventi in una desolante mediocrità? Che cosa ha a che spartire la comunità geloa di ventisei secoli or sono, con la comunità gelese? I reperti archeologici, le colonne doriche, i crateri che affollano i musei del mondo?
Gela andrebbe osservata con la stessa dedizione di quegli astrofisici che servendosi di telescopi capaci di bucare l’universo, coprendo distanze siderali, abbattere il tempo, scoprono ciò che accade senza farsi irretire dall’ignoto.
Accostare un genio, come Eschilo, a Chiara Ferragni, ha quindi un’unica buona motivazione: farci ragionare su ciò che non sappiamo ancora e impedire di finire nel buco nero dell’universo, in una realtà senza storia che esclude, abbrutisce, cancella. Gela non può accontentarsi di un cassetto di cartoline ingiallite, un album di fotografie, una malinconica rassegnata ricerca di ciò che si trova alle origini del tempo.