“O vota il popolo o votano i consiglieri provinciali”. I circuiti social hanno diffuso qualche giorno fa una nota di una parte politica che si richiama allo spirito sicilianista per denunciare “l’ignobile storia delle province”.
Il bersaglio è marginale, il sistema di voto. L’ignobile storia parte da lontano e quella della abolizione delle province con l’annuncio della nascita dei Liberi Consorzi di Comuni in Sicilia, previsti dallo Statuto speciale e mai attuati.
Il cruccio degli autori della nota è il voto di secondo grado, assegnato ai consiglieri comunali. I Liberi Consorzi, mai istituiti e gli enti intermedi, devastati da dieci anni di gestione commissariale sprovvista di risorse e di regole, subiscono l’onta di un giudizio ingiusto che maschera la tenace avversione verso i Liberi Consorzi, visti come fumo negli occhi dalle burocrazie provinciali e dalle nomenclature “intermedie”. La vicenda lascia il sapore di una truffa, pianificata senza remora alcuna, che viene salutata come vittoria del buonsenso, senza che alcuno ne ravvisi l’infamia grazie ad una interessata devozione dei decisori istituzionali.
La riforma annunciata in grande spolvero, con la nascita dei Liberi consorzi, vive la vigilia del suo esonero definitivo per volontà dell’attuale governo regionale, presieduto da Renato Schifani. Il ripristino delle province, sostiene l’esecutivo “mette fine ad una esperienza fallimentare” e ripristina “servizi fondamentali quali la manutenzione delle strade e la cura dell’edilizia scolastica…”.
L’ignobile storia, la storia vera, comincia con la prima legislatura dell’Ars, che non istituisce i Liberi Consorzi, e prosegue per più di mezzo secolo con finte riforme, in particolare con la nascita delle nuove province negli anni Novanta, che non modificano in nulla gli assetti territoriali e burocratici dell’isola, profondamente mutati rispetto al secolo scorso grazie alla nascita di ambiti territoriali omogenei caratterizzati da economie industriali o agricole di grande rilievo. Le burocrazie, politiche ed amministrative, sono un muro invalicabile.
I sostenitori della controriforma, il ripristino delle province, si sono serviti di un metodo antico ed efficace: il percorso è stato minato, le innovazioni fermate dalla potente lobby dei capoluoghi, sedi inamovibili di enti e strutture, pubbliche e private. La legge di abrogazione delle vecchie provincie in campo nazionale (legge Del Rio) è stata spazzata via o quasi e in Sicilia le ex province sono state tenute sotto il livello di sussistenza, mentre si accendevano conflitti sulle funzioni, sugli ambiti territoriali, sul sistema elettorale (voto di secondo grado affidato ai consiglieri per l’elezione delle amministrazioni di ogni Consorzio).
Il ripristino dello statu quo ha guadagnato in corso d’opera sempre maggiori consenso grazie ai guai provocati dalla mancanza di risorse e una legislazione opaca. I commissariamenti, cari ai governi regionali, hanno rappresentato il grimaldello, per entrare nella stanza dei bottoni, una regia tenace e previdente. E’ bastato spingere fino in fondo ik dissesto di una riforma mai veramente partita e ruotare il grimaldello nel giusto verso per innescare la volontà unanime a favore del ritorno all’antico.
Resta l’elezione diretta da rimettere in sesto, ma c’è un inciampo, la legge Del Rio, che abroga le province, non è stata ancora gettata nel cestino, la Sicilia non può legiferare, altrimenti potrebbe subire l’impugnativa del governo nazionale. La Corte costituzionale ha recentemente ingiunto all’ Ars di convocare il corpo elettorale per l’elezione dei consigli provinciali in Sicilia, chiudendo un decennio di gestioni commissariali. C’è però chi soffre questa fase di stallo, le elezioni provinciali potrebbero rimettere in pista nuove formazioni e movimenti, o lobbies interne ai partiti, che in occasioni delle europee non possono far valere il diritto di esistere. Non è una piazza affollata quella che ingaggia il braccio di ferro regionale sulla controriforma, senza aspettare l’abrogazione della Del Rio, ma non può essere ignorata.
La piazza che non ha rappresentanza è vasta, quella del referendum di Gela è solo la più nota e riconoscibile. Ma chi volete che si incarichi di fare rispettare la volontà degli elettori di una comunità? Il quadro di riferimento è opaco, il livello politico del confronto assai modesto. Chi dovesse osare richiamarsi allo Statuto verrebbe accolto con lancio di uova e pomodori marci, sarebbe sospettato di non starci con la testa. Chi, imprudentemente, l’ha fatto, ha ricevuto un plauso formale e l’accondiscendenza che si concede per compassione ai perdenti.
Qualche domanda possiamo farcela, tuttavia, dal momento che non calchiamo la scena in uno dei teatri di cartone dell’intellighènzia politica siciliana. Perché siamo a questo punto? Perché la Sicilia ha buttato al macero la sua storia di popolo-nazione?
Le malandrinerie commesse dai rappresentanti delle assemblee legislative godono di una impunità “morale” oltre che giuridica; è un po' ciò che accade negli stadi di calcio, dove è possibile esibirsi in baruffe orrende, scambi di accuse ignobili, insolenze inaudite senza alcuna conseguenza. L’impunità collettiva ha allargato anzi la sua sfera d’influenza nei territori estranei alla contesa – la sede delle deliberazioni e gli stadi di calcio – spesso teatro di guerriglie urbane e parlamentari. Le ipocrite geremiadi di ogni competizione elettorale, sempre meno partecipata, sono il corollario di un panorama che vede la democrazia e la convivenza civile irrimediabilmente penalizzate.
Non sorprende: la fiducia nelle istituzioni è determinata dall’etica di coloro che le rappresentano. Ci si affida alla giustizia se c’è giustizia, ed ai governi se essi rappresentano gli interessi e le volontà dei cittadini. Quando le istituzioni sono teatro di intrighi, truffe politiche e irrispettose trasgressioni di leggi e buonsenso, la società civile ne è contagiata, diviene “incivile”, oppure si arrende e intriga a sua volta per ottenere il riconoscimento di diritti o di privilegi non dovuti senza farsene alcuno scrupolo. La scelta dei candidati alle urne viene inquinata ed invece che essere dettata dalla qualità dei candidati e dalle loro competenze, subisce la miope legge del do ut des.
In questo quadro di riferimento, che non ha confini locali né regionali, Gela costituisce una delle comunità che avrebbe diritto all’indulgenza per i comportamenti poco ortodossi dei suoi cittadini, spesso oggetto, e non a torto, di giudizi poco lusinghieri. Ha subito tanti torti e tante truffe; la vicenda referendaria sull’adesione al Consorzio di Catania, ignorato dalle istituzioni, parlamentari e giudiziarie, è fra quelle più difficili da digerire. La prevaricazione in questo frangente ha raggiunto limiti intollerabili.
Aldilà dell’episodio in sé, riportando la vicenda sui Liberi Consorzi, un’assemblea legislativa, che mistifica il senso delle sue deliberazioni in palese contrasto con la carta costituzionale da cui promana, commette il peccato più grave ai danni della democrazia e dell’etica politica ed istituzionale: essa tradisce la sua ragione d’essere e mente ai cittadini che l’hanno votata. Se nel perpetrare il delitto della frode politica e della menzogna istituzionale, dichiara di esprimere falsamente la volontà dei costituenti e l’interesse della comunità, si macchia di una indicibile menzogna. L’Assemblea regionale siciliana ha fatto torto in più circostanze allo Statuto speciale del quale è emanazione, ha eluso la Carta costituente o legiferato in modo difforme al suo dettato imperativo in materia di organizzazione amministrativa territoriale.
Sollecita fino all’imprudenza nel reclamare poteri e funzioni previsti dallo Statuto nella distribuzione di risorse e nella permanenza di privilegi, spesso in modo incauto e svantaggioso, l’Assemblea è stata restia, perfino ostile nell’applicazione delle norme statutarie. Il ripristino delle province, eredi del Ventennio fascista, disconosce ancora una volta la Carta costituente.