Gela è una città post industriale che ha acquisito i caratteri di un centro commerciale in forte espansione.
L’elefante bianco di Piana del Signore non ha lasciato solo rovine, ma ha messo in circolo risorse economiche provenienti da un ceto medio agiato e, in misura modesta, da attività illecite. Il grande business della speculazione fondiaria, che ha trasformato la periferia in una bidonville, non ha prodotto investimenti significativi. L’espansione del terziario va addebitato al ceto medio agiato, uscito dalla fabbrica.
L’industria ha lasciato una impronta di difficile lettura, in cui convivono il ricordo di una svolta economica notevole, le aspettative deluse e un orizzonte di declino percepito come inappellabile fine di una storia. La convivenza è faticosa, sembra irretire, sia a livello individuale che collettivo, anche menti vivaci e dotate di un sano ottimismo di bandiera.
Ciò che emerge con sorprendente nettezza è la percezione di una deriva, provocata dal depotenziamento delle volontà, abilità, opportunità, quasi che la comunità si sia adagiata su una chiatta fluviale, lasciandosi sospingere dalla corrente, l’effetto di trascinamento sembra avere la meglio su ogni volontà. Prevale la sfiducia nel futuro.
Il quadro, così come lo si evince sulla base delle mie modeste competenze, è fosco. Non è la verità rivelata, tuttavia. Esso pecca di uno studio approfondito, rimane nel vago e nell’indistinto. La percezione, d’altra parte, è pur sempre il primo livello di conoscenza, su cui svolgere verifiche e ragionamenti.
Gela è una comunità sfibrata, ma riserva eccellenze sorprendenti sia nel campo industriale, imprenditoriale e, seppure in misura minore, culturale. Accanto a realtà industriali che operano su scala internazionale, che sembrano vivere una vita avulsa dalla comunità (per necessità e scelta), la città postindustriale ha fatto nascere una imprenditoria che è riuscita a conquistare una fetta di mercato che supera i confini dell’isola. Si tratta tuttavia di mosche bianche che non incidono sulle sorti della comunità; per esempio, non accolgono l’ampiezza delle forze lavoro disponibili.
La emigrazione di qualità, dunque, fa da contraltare a quel che di positivo il lascito industriale ha creato. L’impresa figlia della fabbrica non è mai nata. Gli effetti moltiplicativi, annunciati la vigilia dell’investimento di Piana del Signore, non si sono realizzati: la fabbrica non ha promosso incentivi e condizioni di privilegio nel territorio di Gela e nel suo distretto.
Nel campo propriamente commerciale la spinta è stata ben più rapida ed ha interessato molti più soggetti. Ho notizia di operazioni di merchandising che hanno richiesto investimenti significativi ed hanno prodotto insediamenti da sfiorare il carattere di monopolio nel settore dell’abbigliamento e del terziario. Per quanto ne so, tuttavia, le risorse economiche immesse nel commercio non vengono da proventi, diretti o indiretti, dell’industria.
L’indotto del petrolchimico non ha guadagnato, con la fine del ciclo produttivo, un ruolo nella comunità. I buoni affari degli investitori non hanno modificato le sorti dell’economia cittadina: la catena di negozi, sia nel lusso quanto nel basso prezzo, portano marchi noti a livello nazionale, espone prodotti della grande imprenditoria e della distribuzione del nord: sigle ben pubblicizzate entrate ormai nel giro esclusivo del made in Italy. Ed a sua volta – la qualcosa non può sorprendere – i manufatti prodotti dai grandi marchi riciclano il lavoro di assemblaggio, e non solo, della manodopera a basso prezzo asiatica e, più in particolare, cinese.
Ciò che resta a Gela è ben poco, insomma. Acquistare un paio di scarpe a Gela, a basso prezzo, partecipa al pagamento dei salari per il personale, nulla di più.
Il ciclo dell’economia globalizzata non colpisce unicamente Gela, è ovvio, ma incide in modo più pesante laddove, come a Gela, la produzione locale del terziario è molto modesta, pressoché inesistente.
Alla luce di queste considerazioni di buon senso, mi auguro che lo siano, riesco a spiegare la percezione di una diffusa scontentezza che riscontro nel corso di conversazioni informali avute durante la mia permanenza a Gela.
E’ un sentimento diffuso che trascende il populismo e l’antipolitica, sembra far parte proprio del modo di essere del cittadino comune, che lo esprime con accenti diversi, motivazioni disparate: rancore, rabbia, livore, accuse sprezzanti.
Più che di opinioni urlate sono fendenti che vibrano nell’aria senza danno per alcuno. Il sintomo di uno stato d’animo che si coglie ovunque, anche laddove l’istruzione ed il ruolo pubblico dovrebbe spegnere l’incendio.
Ci si aspetta che la cultura, le buone pratiche e le competenze inducano la responsabilità di proporre analisi, indicare soluzioni e promuovere iniziative.
Ma non è così. Prevale l’insofferenza, ed è assente il sentimento del civil servant, il cittadino consapevole delle proprie responsabilità.
Ho cercato di darmi una spiegazione. Forse non sono stato fortunato e sono in ambienti provati da sventure. Forse la motivazione potrebbe trovarsi nella condizione reddituale: forse avere una vita agiata provoca indifferenza, non fa sentire in modo acuto i disagi di una comunità afflitta da una atavica carenza di servizi pubblici.
Assenza di cittadinanza attiva, egoismo? Chiamiamola pure così, la sostanza non cambia. La locomotiva, la cosiddetta società civile, non fa la sua parte. La conseguenza è che la funzione di traino è demandata unicamente a coloro che “scendono” in politica, le cui motivazioni non sempre coincidono con gli interessi prevalenti della comunità.
La separatezza fra la cosiddetta classe dirigente ed il resto delle risorse umane scende come una scimitarra nel corpo sociale della comunità: da una parte gli amministratori con i loro agenti di riferimento dall’altra, scontenti ed indifferenti.
Tirare righe troppo nette non è una buona cosa; le cose sono più complesse e sfumate, le categorie o le definizioni rigide possono distorcere la nostra comprensione e non ci fanno trovare quel che cerchiamo.
Non vediamo, come naufraghi, la corda che può portarci in salvo, guarendo la nostra cecità? Alcune conoscenze influenzano la nostra percezione della realtà, altre mostrano che essa esiste indipendentemente dalle nostre conoscenze, e scaturisce dalle interazioni tra gli oggetti. Sono ragionamenti plausibili, ma gettano la soluzione fuori dall’universo intelligibile, allontanandoci, piuttosto che avvicinarci, alla comprensione.
Forse bisogna partire, per quanto spiacevole sia, dall’esito delle frustrazioni che la città postindustriale ha inoculato, il mugugno, il manifesto di una sub-cultura alla quale pochi riescono a sottrarsi, Facciamo l’esame di coscienza, battiamoci il petto, ove serva, magari senza coprire il capo di cenere. I
l mugugno è una malattia endemica, essa lascia le cose come stanno, E’ una espettorazione autoreferenziale, lo sfogo tradimentoso e ingannevole, che ci fa espellere il grumo di rancorosi ricordi; somiglia ad un colpo di tosse, offre un falso sollievo e s’incunea dentro a qualcosa in modo stabile e occulto.
Un alibi, una cattiva compagnia, una matassa senza bandolo. Insinua la denuncia che non osa proferire, la parodia della protesta. Indossa l’abito del diritto, si fregia delle parole sfumate per sembrare lieve e ben educato. Mistifica il senso dalla realtà, sparigliandone ogni canone. Moltiplica la domande, abituandoci a lasciarle orfane di risposta.
Il mugugno non si pente, non riconosce la viltà che lo tiene in vita; rimbambisce, disarma, consola amareggiandoci, ci libera mentre ci incapretta. E’ umore malsano, iniquo, figlio degli attraversamenti sociali rapidi, inconfessabili miserie. Usato dal pulpito, provoca distrazioni di massa: si infiltra nei libri di storia, nella cronaca quotidiana, nella retorica dei potenti, nelle promesse della politica, nella narrazione di eventi luttuosi tutte le volte che non ci si assume la responsabilità di ciò che accade. Un virus.
Quando ci si lamenta unanimemente, mugugna perfino chi ha l’obbligo di agire, e di far rispettare la legge. Mugugna il sindaco, mugugnano gli amministratori, i manager, i comuni cittadini. Un tripudio di mugugni.
Fra coloro che mugugnano non si allaccia alcuna alleanza, non corre alcun sentimento di solidarietà, non interviene alcun elemento comune. Chi mugugna non aspira al feed back, parla preferibilmente a se stesso; se ottiene ascolto, anzi sembra infastidirsi, quasi che fosse stata violata la sua privacy.
Naturalmente in famiglia il mugugno rimbalza sulle pareti, Il capofamiglia alza la voce, mostra, virtualmente, i muscoli, dà prova di destrezza e sprezzo del pericolo. Baionetta in canna, insomma. Poi si accende la Tv e torniamo al solito tran tran.
Eppure il mugugno conquistò la sua dignità. Altri tempi.
Durante il boom economico, il mugugno ebbe il suo mentore in Gino Bartali, campione di ciclismo e galantomismo, salvatore della patria con la sua vittoria al Tour de France, quando l’Italia fu alla vigilia della guerra civile a causa dell’attentato a Palmiro Togliatti. Gino affratellò e sdoganò il mugugno.
L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare, diceva ai microfoni, interrogato mille volte da cronisti e pensatori. Il campione arruolò gli italiani nel partito unico, quello dei mugugnatori, senza abbattere le barricate ideologiche fra comunisti e cattolici. Un autentico miracolo, irripetibile. I portuali di Genova – che avevano pagato a suon di palanche il diritto al mugugno – secoli prima ebbero così il loro santo protettore. E’ mai possibile che tocchi all’unica città post-industriale del Mezzogiorno d’Italia, Gela, raccogliere l’eredità di tanta lungimiranza?
Il virus può essere letale, alla lunga. Serve il vaccino, presto.