L’Editoriale/ Marchioni e Hytten, la profezia tradita

L’Editoriale/ Marchioni e Hytten, la profezia tradita

Nemo propheta in patria, la profezia evangelica non ammette eccezioni.

Marco Marchioni ed Eyvind Hytten, gli autori del profetico saggio sull’industrializzazione senza sviluppo, sono stati sommersi dall’oblio. Non è la maledizione divina, né il destino immutabile, a seppellire il loro ricordo, ma la consegna del silenzio, che ha rinchiuso in un irriguardoso archivio una storia assediata dall’ambiguità, dall’indifferenza e da un intollerabile cinismo. 

Il consiglio comunale di Gela, nell’ultima seduta, avrebbe dovuto esprimere un giudizio sulla mozione delle consigliere Virginia Farruggia, Ascia Alessandra e Paola Giudice, che hanno proposto di intitolare una strada della città ai due sociologi.

Le consigliere ricordano “che cinquant’anni fa i due autori, Eyvind Hytten e Marco Marchioni, dopo un lavoro di studio e di analisi sul territorio del comune di Gela e lungo due anni, individuarono subito le criticità che l’arrivo di Eni comportava in un territorio che fino ad allora viveva prevalentemente di pesca e agricoltura, rovesciando, fin da subito, il mito del progresso, portato da un’industria pesante e impattante come quella petrolchimica. 

“Che questo mito ancora oggi fa proseliti, complice la colpevole dipendenza della città (dipendenza economica, sociale, culturale, politica) dal quel concetto di industria; lasciando ai molti interrogativi non ancora risolti, come ad esempio se ci sia altro oltre Eni, se sia giusto pretendere diritti dall’azienda di Stato e non mendicare elargizioni, e su cui non c’è ancora una compattezza di vedute. E invece sono questioni fondamentali, nel 1970 come nel 2020.

“La mozione è un atto di ordinaria amministrazione: la toponomastica cittadina negli ultimi anni, è stata di manica larga. Insomma, una strada a te ed una a me: è stata sdoganata anche la trincea della storia. Tutto liscio? Manco per sogno. La mozione si trova in stand by da anni – tre o quattro, forse di più – e non riesce ad uscire dall’odg del consiglio. Formalmente è stata congelata, nell’ultima seduta, dalla disputa sulle dimissioni e la sfiducia al sindaco Greco, ma i tempi biblici che hanno preceduto l’inciampo recente hanno a che fare con la volontà del massimo consesso civico. Bene che si possa pensare, l’iniziativa non è in cima ai pensieri dei consiglieri. 

La vicenda non può essere liquidata come una distrazione. Siccome non si tratta di un problema ad personas, Marchioni e Hytten, ma di un giudizio, seppur indiretto, sul fallimento del progetto più dispendioso che il governo nazionale abbia realizzato nel Mezzogiorno d’Italia, il silenziatore sembra avere funzionato a meraviglia per evitare che sulla questione si cominciasse a vederci chiaro e Gela avesse finalmente una tribuna, dopo l’exit strategy dell’Eni, e potesse rivendicare le sue buone ragioni, nella qualità di vittima sacrificale del “progresso senza sviluppo”. Il sospetto, perciò, potrebbe costituire l’anticamera della verità. 

Quale verità? Che non si voglia aprire – e dopo sei decenni sarebbe proprio il caso – un discorso serio. La voglia di urlare le parole che salgono in gola, come un infame reflusso, c’è: chiedere conto degli errori e degli orrori, responsabilità latenti e trascorse. L’Eni è diventato ben altro rispetto all’era di Enrico Mattei: oggi è una miniera d’oro per l’azionariato privato, privilegiato e protetto, grazie alla spalla governativa. 

Tutto andato in prescrizione, e non a causa del codice penale: sarebbe come evocare fantasmi: C’è dell’altro: la narrazione di ciò che è accaduto, per formulare un piano per il futuro. Ricordare Marchioni e Hytten, dunque, è non solo doveroso – hanno entrambi tradito la loro missione al servizio dell’Eni rinunciando agli emolumenti per abbracciare le ragioni della comunità gelese – ma una irrinunciabile necessità di sapere e far sapere veramente ciò che è accaduto. E questo non piace, a quanto pare; comunque, non interessa più di tanto. 

Disseppellire la profezia non ottiene il gradimento, dare il nome ad un angolo della città, è poca cosa; che sia l’Ente Nazionale Idrocarburi a provare fastidio, è perfino legittimo, ma i rappresentanti della comunità? Come sanno tanti, il libro di Marchioni e Hytten, giunto in libreria a metà degli anni sessanta, è stato acquistato nei giro di ventiquattro ore da acquirenti così entusiasti, da custodirlo in luogo sicuro, in modo che il popolo, sprovvisto di adeguati strumenti di conoscenza, non ne taroccasse i contenuti. 

La vigilanza sul testo è stata assidua, con una eccezione, di cui porto per intero la responsabilità (con una punta di orgoglio), allorché ripubblicai il libro in allegato alla rivista Cronache Parlamentari siciliane, più di diecimila copie, distribuite gratuitamente dal Servizio Comunicazione dell’Assemblea regionale siciliana durante la Presidenza di Salvatore Lauricella.

Erano gli anni della mattanza, a Gela: la guerriglia fra bande rivali aveva sprofondato la città nell’ignominia, spossessandola del diritto alla sicurezza. Non so quanto abbia contribuito il ritorno del libro negli scaffali, alle buone ragioni della comunità sfiancata dai massacri. Il recinto si è presto richiuso, e l’oblio è tornato a pesare su Gela, incapace di disegnare il futuro, e utilizzare il credito che vanta nei confronti del Paese nel settore energetico e delle materie prime.

Il caso Gela, scrivono i due sociologi, rappresenta “la fine di un’illusione per chi credeva nel rinnovamento dell’industria di Stato in funzione anticapitalista e anticolonialista. Il rinnovamento potrà venire solamente dalle popolazioni meridionali, nelle quali sempre più matura una coscienza che non si possono fare ulteriori deleghe a nessuno, neppure ad uno Stato democratico ed antifascista quale quello promesso dalla nostra Costituzione.”

Introducendo il lavoro di Marchioni e Hytten, posi l’accento, in particolare, sui meccanismi del potere durante il processo di trasformazione di una società arretrata a carattere agricolo in una società industriale, come erano stati analizzati dai due sociologi: “invece che i  cosiddetti effetti moltiplicativi, determinati dall’investimento nella chimica di base, e gli automatismi di crescita preconizzati, si verificò un vistoso aggravarsi delle condizioni di degrado del territorio e il lento radicamento della mafia, prima inesistente”. 

Il libro, espurgato dalle vicende contingenti, contiene preziosi suggerimenti: “prendere lo spunto da questo caso per rivedere radicalmente le premesse, gli strumenti e le finalità dell’intera politica di sviluppo del Mezzogiorno, sia essa fondata sull’industrializzazione concentrata che su altri tipi d’intervento.”

Con questa prospettiva tre anni or sono ho incontrato il sindaco, Lucio Greco, insieme al direttore del Corriere di Gela, Rocco Cerro, per proporre l’apposizione di una stele e una giornata dedicata al caso Gela, al lavoro ed al ricordo di Hytten e Marchioni. La proposta fu bene accolta, fu designato anche un funzionario, perché svolgesse il lavoro preliminare di raccordo.

Poi, il nulla; è piombato il silenzio, non è stato rispettato nemmeno il galateo, che pretende l’informazione sulla evoluzione, qualunque essa sia. C’è stato un veto? O si tratta solo di sciatteria, disinteresse, l’irritante costume del potere senza potere, che gira in tondo senza riuscire a combinare nulla? O gli uomini che siedono su scanni spigolosi se la fanno addosso quando  devono esplorare territori che non controllano; “lenti d’incascio”, direbbe Andrea Camilleri.