Sono andato via da Gela nel 1978. Avevo tutto ciò che si potesse desiderare, un lavoro, una famiglia, tanti amici.
La passione politica e gli interessi più svariati. La scuola, e il giornale, il primo amore. Un mattino, incontrai a Palermo, il redattore del Giornale di Sicilia, con il quale da anni parlavo ogni giorno per concordare ciò che sarebbe andato in pagina, la pagina di Caltanissetta, o in “regionale”, e fui convertito, come Paolo di Tarso sulla Via di Damasco. Palermo mi strappò alla mia città con il giornale. Il primo amore, appunto. Fu dura, dapprima.
Gela allora andava ogni giorno in cronaca regionale, per l’industria, gli affari, i conflitti, la microcriminalità, e la mia firma contava. Niente mafia, ancora. Si percepiva il cambiamento, certo, ed era lecito aspettarsi il peggio.
Attorno al petrolchimico, e al suo interno, si giocavano grosse partite, e la Cassa del Mezzogiorno non lesinava investimenti, dentro e fuori la grande fabbrica. Insomma, circolavano tanti soldi. E quando c’è odore di pecunia, arrivano i falchi e gli sciacalli. Gela stava diventando un “vicereame”. Non aveva i grandi boss, quelli non si muovevano da Palermo, Trapani ed Agrigento, ma i “vice”, quelli sì, sovrintendevano al business degli appalti e dell’indotto.
Cercavo di spiegare quel che accadeva, per quanto possibile, sul Giornale di Sicilia e, al di là dei miei meriti, Gela otteneva spazio e non era mai dimenticata. Avrei potuto dirmi soddisfatto. Accadde alla vigilia della mia partenza per Palermo qualcosa di importante, un caso di cronaca nera di risonanza nazionale, il sequestro di un produttore cinematografico lombardo.
Mi pare che si chiamasse De Nora, il nome non lo ricordo. Lo si cercava ovunque, anche in Sicilia; si sospettava che i sequestratori l’avessero consegnato alla mafia per ragioni logistiche ed organizzative.
Il sospetto era legittimo, i sequestri pretendevano una organizzazione assai complicata, e solo la mafia siciliana, a quel tempo, era in grado di offrirla. Ebbene, venni a conoscenza che sulle colline ad est di Gela, nelle vicinanze della costa, c’erano stati dei trasferimenti di proprietà: vigneti e non solo. Molti ettari di terreno erano passati di mano in mesi recenti.
Chi avrebbe potuto permettersi investimenti ingenti e in un breve lasso di tempo? Affari in codice, qualche nome noto nel mondo di Cosa Nostra. L’intera area, a ridosso dello stabilimento petrolchimico, non destava sospetti. Troppi controlli, troppa attenzione. Ma fu proprio questo, il riciclaggio del business illegale e la peculiarità della location, a suscitare qualche sospetto.
Raccolsi alcune informazioni e scrissi che forse l’introvabile De Nora avrebbe potuto trovarsi nelle colline fra Gela e Vittoria, dove certo nessuno lo cercava. Uno scoop, chiamiamolo pure così, realizzato con il ragionamento, nient’altro. Anche i servitori dello Stato furono spiazzati. Ma loro, i boss, no; loro, invece, s’incazzarono e si rivolsero a un mio congiunto acquisito, che ora non c’è più.
Pare che avessero rispetto di lui, o qualcosa di simile. Ricevetti nella tarda mattinata una telefonata affatto concitata, ma preoccupata, con cui mi venne richiesto, dal congiunto acquisito, di raggiungerlo perché aveva qualcosa d’importante da riferirmi. Mi raccomandò di tralasciare qualunque altro lavoro stessi facendo. Naturalmente, obbedii. Senza troppi giri di parole mi raccontò di avere ricevuto un avvertimento e che questo avvertimento riguardava la mia persona. “Dobbiamo ammazzare un porco”, gli era stato detto da personaggi, di cui non seppi mai l’identità.
Dopo avermi dato notizia delle intenzioni, mi chiese che cosa avessi mai combinato. E lo informai così del mio “involontario” scoop. Ottenni una tiepida assicurazione: grazie al rispetto che i “carnezzieri” portavano al provvidenziale congiunto acquisito, sarei forse scampato alla rappresaglia, della quale non mi furono offerti i particolari. Ciò che accadeva era la prova che avevo mirato sul bersaglio giusto.
Alcuni giorni dopo, De Nora fu riconsegnato, con un barbone da monaco circensense, alla sua famiglia. In Sicilia, se non ricordo male. Raccontai ogni cosa al comandante della Compagnia dei carabinieri, il capitano Alfio Pettinato, eccellente investigatore e persona perbene, che raccolse notizie di prima mano da un boss riesino sul business degli appalti. Non aveva molti estimatori ai vertici dell’Arma, e non ebbe quel che meritava. Ma questa è un’altra storia.
Ho raccontato questo episodio perché rappresenta l’ultimo mio reportage da Gela. Me ne andai, proprio dopo avere raggiunto la mia piccola gloria professionale. Non furono “i carnezzieri” a farmi andare via, ma il redattore del Giornale di Sicilia con cui lavoravo quotidianamente.
Aveva lasciato il giornale per dirigere il nascente quotidiano di Palermo, Il Diario, che raccoglieva il meglio del giornalismo siciliano. Mi propose di occuparmi della cronaca parlamentare, un punto di arrivo nel mio mestiere. Accettai senza pensarci sopra ed il giorno di Natale, unico passeggero del bus Gela Palermo, lasciai la mia città.
Non mi pento di niente. Quando ho letto l’intervista in lingua inglese rilasciata da Edvige Giunta ad un editore newyorkese sulla sua città d’origine, ho sentito il magone. Mi ha contagiato la nostalgia. Del resto, le radici non le ho mai perse. Edvige, figlia del notissimo professore Vincenzo Giunta, ha lasciato Gela nel 1984, ed ha realizzato negli States i suoi sogni.
E’ stimatissima nel New Jersey, ha una bella famiglia, fantastici figli, tantissimi amici, ma il suo cuore continua a battere forte quando ritorna a Gela o ricorda la sua città d’origine. Un amore incondizionato, vibrante, inesauribile. L’intervista, tradotta, è stata pubblicata nel numero scorso del Corriere di Gela, ed ha avuto un successo strepitoso: più di seimila “visite” in poco più di 48 ore, tantissimi commenti ed approvazioni.
Ho letto i commenti con interesse, e ciò che mi ha impressionato è la visione così oppositiva fra i residenti e quanti vivono lontani da Gela, all’estero o altrove. Lettere d’amore e requisitorie, le une accanto alle altre, avvolte in una spirale di sentimenti forti: un radicamento commovente, e la denuncia di una crisi d’identità; i ricordi leggiadri, i luoghi amati, i pensieri gentili, e la denuncia di una invivibilità insopportabile.
A Emanuela Giannone Gela manca come il primo giorno che l’hanno portata via. Giacomo Bilardi, che vive da 10 anni in Germania, confessa di avere il cuore sempre rivolto a Gela. Giuseppe Catalano, leggendo Edvige Giunta, ha provato una forte emozione, peccato, ha aggiunto, manchi di appartenenza e senza senso civico.
Gli altri commenti sono dello stesso tenore, da una parte o dall’altra, niente vie di mezzo: per amare Gela non bisogna viverci? Beh, capisco che sono tante, forse troppe, le cose che non vanno a Gela, ma per chi, come me, vive a Palermo, è davvero difficile essere così severo. Altrove non sono rose e fiori. E poi, riuscire ad amare, al di là dei demeriti, è così dolce… Sto, decisamente, dalla parte dei nostalgici.