Un uomo con la testa sulle spalle sarebbe scappato via e non avrebbe più messo piede nel luogo in cui hanno cercato in tutti i modi di ammazzarlo e spaventarlo, minacciandolo, con esplosivi, incendi, insolenze.
Non solo per istinto di sopravvivenza, ma anche perché gli hanno fatto, letteralmente, terra bruciata attorno, distruggendo di fatto la sua impresa metalmeccanica, riducendo in cenere i magazzini, autovettura ed altro.
Pino Cannizzaro (nel riquadro), 76 anni, nato e vissuto a Gela, invece, non si è piegato alle vessazioni ed agli attentati, è rimasto nella sua comunità e le ha regalato la memoria che era stata sottratta e inquinata, dalle mafie, dall’ignobile incuria dal furto dei suoi tesori d’arte. Non ha porto l’altra guancia, non piegandosi ai boss, ha ricostruito la memoria perduta con un parco storico, nel quale Gela si racconta attraverso monumenti, sculture, oggetti, che, come un libro, narrano la grande storia della città.
E’ sicuramente vero che in un clima di declino, ogni seppur minimo episodio o gesto, anche il più banale, guadagna il diritto di essere esaltato, ma Pino Cannizzaro non è l’autore di un piccolo gesto. La straordinarietà dell’opera, infatti, è tale da lasciare con il fiato sospeso, e suscitare in chi vive Gela un po' d’orgoglio, e in chi vegeta quel salutare senso di colpa che smuove l’amor proprio.
Il Viale della Memoria che immette al Parco accompagna i visitatori con i busti dei personaggi che hanno fatto la storia della città, mentre il parco accoglie monumenti, sculture e la ricostruzione di alcuni eventi di rilevanza storica, come lo sbarco degli Alleati sulle coste del Golfo di Gela e i congegni che permisero di scoprire il petrolio a Piana del Signore.
Il “libro” di storia si apre su un terreno di proprietà di Cannizzaro, brutalizzato dal vandalismo e dal tempo; lo si può “leggere” pagando un ticket modesto, che serve a ricompensare le giovani guide che accolgono centinaia di studenti e turisti, e pagare i costi di manutenzione. Il signor Cannizzaro, a farla breve, non ci guadagna niente. E con lui i suoi amici e collaboratori che costantemente gli danno una mano: l’archeologo La Spina, i fratelli Tascone, scultori, ed altri collaboratori e volontari.
Le buone pratiche, infatti, non solo le cattive, suscitano emulazione ed empatia, creando delle oasi di cultura, buonsenso, spirito di cittadinanza e identità, indefinitiva un movimento di emancipazione civile, che si allarga e riesce a fare breccia anche laddove sarebbe faticoso prevederlo.
C’è naturalmente, l’altra faccia della medaglia, su cui fissare lo sguardo: risalta imperiosamente la propensione a curarsi del giardino di casa, metafora dell’individualismo esasperato, della convenienza personale come unico parametro da rispettare. Chi elegge un domicilio, piuttosto che una cittadinanza, suppone che darsi da fare per il bene comune sia uno spreco di risorse, una elargizione verso chissà chi e chissà dove.
Pino Cannizzaro ha alzato l’asticella della cittadinanza attiva, e lo ha fatto in una comunità che denuncia, ormai da tempo, una grave disaffezione verso s la piccola patria in cui si vive. L’asticella non si alza né si abbassa a seconda del tenore di vita, della cultura, dei titoli di studio; non sono le buone letture a fare la differenza, ma l’abitudine a occuparci solo dell’orticello, l’ossessiva ricerca della considerazione altrui, il bisogno di piacere e compiacere attraverso comportamenti seduttivi. L’autostima deviata, insomma.
Piuttosto che partecipare alla costruzione dell’ambiente in cui si vive, nella convinzione che l’investimento sia utile ed abbia un ritorno positivo, ci si chiude nel proprio gruppo “di ascolto”, e all’interno di esso si attua una sorta di scambio delle gratificazioni sulla base di povere motivazioni. L’appartenenza alla cerchia delle proprie amicizie e relazioni sociali e di lavoro (associazioni, corporazioni, club, ecc.), stempera, o addirittura cancella, la cittadinanza attiva. Le iniziative pubbliche, in realtà, servono unicamente per celebrare se stessi. “Sentire dentro” l’appartenenza implica un percorso educazionale che si fonda sulla conoscenza della propria comunità. Una conoscenza che non si ottiene solo attraverso le buone letture, ma da un cammino esperienziale di partecipazione attiva.
L’esempio, eclatante sotto molti aspetti, che mi sento di fare è costituito dalla singolare presenza a Gela di ceppi, stele, lapidi, marmi, che evocano i meriti di coloro che li hanno deposti in piazze, aiuole, marciapiedi, cortili e quant’altro. Sulla stele è iscritto il club che l’ha eretto. Una stele o una lapide hanno una missione da compiere: ricordare un personaggio, un episodio, un evento che ha diritto alla memoria, altrimenti si tratta di autogratificazione. Se la stele fosse un monumento, una prova d’artista, sarebbe giustificato ricordare chi ha messo quattrini per erigerla, ma se non c’è quale motivazione può essere accampata per giustificare questa squallida foresta del nulla? Pare che siano una trentina queste testimonianze di idiozia, accolte dalle autorità cittadine senza fiatare, magari con animo grato.
C’è di peggio. Quando la stele viene realizzata dalle istituzioni pubbliche, il personaggio da ricordare si ritrova in compagnia di una folla di persone, che non hanno nulla a che vedere con l’orgoglio della città. Mi è capitato di leggere, arrossendo, la stele issata per Salvatore Aldisio in Piazza del Municipio, che brulica di nomi. Manca solo il nome di colui che nel giorno della inaugurazione levò il velo davanti al pubblico festante ed ansioso. Narcisismo, idiozia o che cosa? Non credo che esistano esempi di tale fatta altrove.
L’invito ad essere seri arriva dal signor Cannizzaro; dalla sua storia di vita e dal suo parco storico. L’ex imprenditore – a mio avviso, continua ad esserlo – nell’altra vita racconta di essere stato salvato da “un angelo custode”, e di avere avuto rapporti di lavoro con 17 persone morti ammazzati e 60 individui finiti nelle patrie galere. Ha subito di tutto, prima di ringraziare l’angelo custode, dando il meglio di sé alla città del cuore. “Sono stati quei giorni terribili a farmi sentire il bisogno di dare qualcosa alla mia città”, spiega Pino Cannizzaro, lasciandoci basiti a chiederci se l’angelo custode, oltre che a salvargli la vita, gli ha dato l’amore per il prossimo, perché di questo, alla fine, si tratta.
La memoria non si costruisce con nomi e cognomi di illustri sconosciuti, che in futuro avranno solo il demerito di impegnare i posteri in vane ricerche per scoprire “chi è costui?” Se ne avessi il potere, abbatterei tutti questi feticci del narcisismo per farne un Viale della Memoria, come ha fatto Pino Cannizzaro. Non c’è altro modo per rendergli merito, che agire con severità. Ci vogliono attributi, naturalmente. La sua vita è una lezione di vita, difficile da apprendere.