Ci sono termini ed espressioni che hanno il potere di assolvere ogni inadempienza, inefficienza, sciatteria colpevole omissione o idiozia.
La burocrazia è uno di questi termini assolutori. E’ il più utilizzato, uno dei pochi che concilia chi parla dal pulpito con chi ascolta. Come si fa, infatti, a non essere d’accordo quando il paludato oratore evoca la burocrazia come causa di tutti i mali? O il giornalista brillante che svolge una requisitoria inesorabile sui nemici occulti della quotidianità?
Chi non ha fatto esperienza della mala burocrazia? Le parti in causa, il rappresentante delle istituzioni e l’utente di un servizio negato, stanno entrambi dalla stessa parte, subiscono la burocrazia come fosse un male incurabile e accettano una rassegnata visione del futuro. Chi sta in alto e chi sta in basso la subiscono, la sopportano e la maledicono con eguale enfasi. Naturalmente, è un alibi, una specie di aspirapolvere da passare sotto il tappeto, ogni volta che si affrontano questioni inevase di durata biblica.
La burocrazia non è un male oscuro, un soggetto astratto, inconoscibile, ma qualcosa di molto concreto con cui facciamo i conti ogni giorno, dal momento che suona la sveglia al mattino, all’ora di andare a riposare. Certe volte s’intrufola nei sogni mattutini, alla stregua di un incubo, rubandoci il sonno e il riposo.
Faccio un esempio: burocrazia è l’istituzione provinciale, con i suoi apparati, i suoi poteri, talvolta occulti, tal altra sfacciati ed irresponsabili. Nei capoluoghi di provincia si situano nicchie burocratiche più resilienti, altrimenti non si spiegherebbe perché in Sicilia, l’Assemblea regionale sia stata a guardare prima e ne abbia fatto materia di produzione del consenso poi; per quale ragione abbia tradito lo Statuto speciale che l’ha fatto nascere e battezzata così sfrontatamente e per quasi ottanta anni; in base a quale calcolo l’abbia accompagnata all’ultima dimora, visto che ora non conta niente.
Si sono toccate vette di nefandezza inarrivabili. L’Ars pratica un modello umiliante ed unico: è l’istituzione pubblica che non rispetta le norme che essa stessa si dà. La spudoratezza con la quale si tradisce non ha eguali dalle nostre parti. I consultori che elaborarono lo Statuto speciale della Regione Siciliana vollero dare all’isola una organizzazione burocratica che permettesse di servire il cittadino con maggiore efficienza.
Smontò l’apparato prefettizio, cancellò le vecchie amministrazioni provinciali, e deliberò la nascita dei cosiddetti Liberi Consorzi che, come dice lo stesso titolo, avrebbero dovuto nascere per libera volontà delle comunità locali, rispettando le omogeneità economiche e concordando l’equa ed efficiente distribuzione dei servizi, in maniera da evitare sprechi e nicchie burocratiche di alcuna utilità. Si volle alleggerire il peso delle burocrazie e degli apparati politici che si affollano nei capoluoghi, e pesano sull’erario.
Il Parlamento regionale ha preferito fingere che la norma non esistesse ed ha puntato i piedi soltanto quando la distribuzione delle risorse romane non giungevano in Sicilia con la consueta generosità. Quando il flusso è finito, perché è stata cancellata la norma sulla compensazione dell’insularità e della specialità, si sono puntati i piedi, senza successo.
L’immagine di una Regione spendacciona e legata a vecchi insostenibili privilegi non ha permesso di difendere quel che serviva e ciò che era giusto rivendicare, l’autonomia speciale, è diventato impossibile. Chiedere denaro pubblico faceva cadere la faccia a terra a chi aveva l’ingrato compito di questuare. Chiusi i rubinetti romani, cancellato ministero per il Mezzogiorno, sono cominciati i guai.
I Liberi Consorzi sono rimasti nel cassetto, inevasi, disarmati, indifesi, reperto storico e testimonianza di irrecuperabile omissione. Negli anni Novanta qualcuno pensò di dare una passata di bianco alla facciata, vennero redistribuiti i servizi, e le province si dotarono di un aggettivo, nuove province (senza cambiare nulla), giusto per offrire la sensazione che si fosse operato per migliorarne l’efficienza.
Venti anni dopo, circa, anni venti del terzo millennio, il vento riformista, partito da Roma, soffiò impetuoso sulla Penisola e, attraversato lo Stretto, offrì al governo regionale su un piatto d’argento, la possibilità di rispettare finalmente la volontà dei consultori siciliani. Sembrò che fosse arrivata l’ora dei Liberi Consorzi. E qualche anima gentile ci credette.
Non s’era fatta i conti con le burocrazie, politiche ed amministrative. Fu anticipata, gonfiando il petto d’orgoglio, la primazia siciliana: la Sicilia avrebbe fatto da locomotiva al treno delle riforme. Le amministrazioni provinciali sarebbero state sostituite dai Liberi Consorzi. Gli enti intermedi affidati ai comuni, sindaci e consiglieri.
Elezioni di secondo grado. Spopolamento degli apparati. Dissenso parlamentare. Significava ritoccare i collegi elettorali, mandare a casa un migliaio amministratori, alleggerire i portafogli, far contare un po' meno la burocrazia, modificare gli assetti provinciali (politici, sindacali, statali, regionali eccetera). Un terremoto. Com’è finita è noto. Per dieci anni le province sono state commissariate, derubate delle risorse indispensabili per le spese correnti ed i servizi di competenza provinciale, mettendo a rischio perfino gli stipendi del personale dipendente.
L’Ars, dopo una laboriosissima istruttoria, ha votato una legge che di fatto rende impossibile la nascita dei Liberi Consorzi. E quando qualcuno, soprattutto a Gela, ha studiato la cintura di castità, perdendoci il sonno, fino a trovare una scappatoia per sfuggire al nodo scorsoio creato per evitare che si muovesse foglia, si sono abbassate le saracinesche di Palazzo dei Normanni.
Proprio così, la castrazione. Il referendum sull’emigrazione di Gela da Caltanissetta a Catania, approvato a Gela con una percentuale bulgara, non è stato preso in considerazione, né a livello parlamentare, né a livello di giustizia amministrativa. Ora si attende la fine dei commissariamenti ed il ritorno alle vecchie province, come se nulla fosse successo: elezioni provinciali, giunta provinciale, ritorno degli apparati, burocratici e politici.
Una storia ignobile. Ha vinto la burocrazia. La tipologia dei territori è intoccabile, si mantiene in vita un assetto amministrativo fortemente penalizzante soprattutto nei territori in cui i capoluoghi vivono solo di burocrazia, e alcune città popolose, come Gela, sono costrette questuare, spesso senza successo, la dotazione di servizi richiesti dalla comunità.
Il contenzioso con il capoluogo, in provincia di Caltanissetta, ha raggiunto livelli da guerra civile, interessa ogni settore della vita pubblica, dalla sanità ai beni culturali. Perfino i reperti archeologici sono oggetto di polemica, a causa del trasferimento di “pezzi” appartenenti agli scavi archeologici gelesi al Museo di Caltanissetta.
Il cuore del problema, invero, è la sanità pubblica. L’ospedale di Gela è fortemente penalizzato ed alcuni servizi, come la prevenzione, diagnosi e cura delle malattie mentali, sono stati abbandonati al loro destino. Una scandalosa sottovalutazione, in considerazione del gran numero di pazienti di Gela. I pazienti a Gela non possono essere assistiti e monitorati, perché non esiste un servizio dotato delle risorse più elementari, a fronte di una utenza che vanta numeri record e una cronaca ricca di casi eclatanti (suicidi, tentati suicidi, delitti), tanto da destare preoccupazioni sulle origini ambientali del fenomeno (metalli pesanti nella alimentazione, inquinamento delle falde acquifere, contaminazione dei terreni agricoli).
E’ stato anche presentato un esposto, che ha dei profili di natura penale sui servizi sanitari che non ci sono. Le famiglie che vivono, con comprensibile angoscia, il problema della malattia mentale, dalla più lieve a quella invalidante, devono rivolgersi ai privati ed affrontare costi molto alti, che creano una dolorosa iniquità. Caltanissetta è diventato sinonimo di matrigna. Non certo per colpa dei nisseni.
Sarebbe di grande utilità affrontare il tema della riforma burocratica e in particolare del riassetto amministrativo del territorio in provincia di Caltanissetta con un quaderno di questioni concrete, e una accurata indagine sulla insulsa distribuzione delle risorse al fine di non regalare alibi culturali. Il campanile non c’entra. Siamo seri, per favore.