Editoriale/ L’Ascot in testa, Gela in coda

Editoriale/ L’Ascot in testa, Gela in coda

I paradossi appartengono a due categorie: paradossi veridici e paradossi fallaci.

I primi sono veritieri, e possono essere dimostrati attraverso un uso sapiente della logica; i secondi, invece, ci conducono verso una conclusione errata a causa di una trappola che solo menti allenate scoprono. Entrambi le categorie, comunque, fanno uso della logica. Siccome il mondo è bello perché è vario, ci sono altri tipi di paradossi, il più noto dei quali è il paradosso politico, dove troviamo costruzioni che fanno a pugni con il buon senso e la logica.

Gela, di recente, si è cinta del lauro della vittoria, grazie a questa categoria di paradossi: illogici, poiché usano una logica… illogica. Apparentemente. Il comportamento di un amministratore pubblico, per fare un solo esempio, sembra incomprensibile, ed invece non lo è, perché di esso non conosciamo le reali ragioni che lo hanno reso tale agli occhi del mondo (interesse di natura privata, doppiezza utile a mascherare la realtà ecc).

L’affermazione è falsa? Certo, lo potrebbe essere, ma se ci pensate sopra, scoprite che affermare il falso vuol dire, a rigor di logica, affermare esattamente il contrario, cioè il vero. Si può andare avanti così, all’infinito. I matematici sono bravissimi in questo genere di indovinelli. 

Il paradosso politico, però, fa male, non lascia indifferenti. Irrita, induce ad una reazione scomposta, ci fa sbraitare, perdere la pazienza. Per fortuna dura lo spazio di un mattino, perché ci si abitua a tutto, figuriamoci. Ora vado al dunque: questo tortuoso (e paradossale) ragionamento preliminare è stimolato da una notizia: la migliore azienda d’Italia del 2022 nell’export è gelese, si chiama Ascot Industrial, e da oltre 30 anni produce gruppi elettronici.

La Confindustria e Il Sole 24 Ore, che hanno stilato la classifica, pare che siano rimasti di stucco. E ne hanno ben donde: presi alla sprovvista, quasi avessero incassato un goal in contropiede, il risultato in un colpo solo mette in discussione una serie di pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi e credenze fallaci sulle abilità italiane, divise per latitudine: al nord si lavora, si produce, e non si sta con le mani in mano, al sud abbaiano alla luna, si cerca il posto sicuro, si insegue l’assistentato, si fanno i conti senza l’oste e chi più ne ha, più ne metta.

In più contraddice la mistica del triangolo industriale, della locomotiva del Paese, delle fiorenti piccole e medie imprese del Nord, della creatività indiscutibile degli imprenditori lombardi, veneti e piemontesi. Sarebbe paradossale se decidessimo di cambiare i connotati all’Italia a causa di un dato, solo uno. Magari l’Ascot è solo fortunata, è stata aiutata all’insaputa, ha usato chissà quali strumenti…

La sorpresa, intendiamoci, ci sta eccome. Mettetevi nei panni di chi redige la classifica, o dello stesso italiano medio che legge il giornale stampato dalle sue parti ed è stato sottoposto al lavaggio del cervello, a causa del quale l’arte di darsi da fare nasce e cresce secondo una mappa territoriale che non è mai stata aggiornata dall’Unità d’Italia ad oggi. 

Dove sta il paradosso, dove sta l’errore? Magari alla testa dell’azienda ci sono manager bergamaschi o torinesi. Falso, l’azienda è amministrata da gelesi, anzi dai congiunti del fondatore, gli operai ed i tecnici sono formati in casa (77 i dipendenti). Il familismo più bieco, ma di successo. Chissà quante volte gli esperti di Confindustria e i redattori del Sole hanno rifatto i conti per sincerarsi che il risultato fosse veritiero e rassegnarsi alla forza dei numeri. Alla fine, allargando le braccia, confermato il verdetto: in testa all’export italiano c’è un’azienda nata (1985), cresciuta ed operante a Gela, appunto la Ascot Industrial. 

Il fondatore, Luigi Greca, ex tecnico dell’Anic di Gela, è un signore di modi gentili, che si è circondato di congiunti ed amici. Il know how? Provo a indovinare: grazie alla paziente formazione del fondatore, esso è arrivato con una rapidità che ha del miracoloso: al top c’è la qualità della produzione, organizzazione aziendale, equity, commercializzazione internazionale, relazioni esterne eccetera. Ed oggi, prendendo in esame 200 società italiane con fatturato fino a 500 milioni, la Ascot Industrial realizza all’estero il 99,4 per cento dei suoi ricavi. Vuol dire questo dato che la Ascot non ha clienti italiani, né pubblici né privati. 

Può essere questo a spiegare il successo, la fortuna di non avere a che fare con enti pubblici e con il club delle società private, abituati a custodire il perimetro dei buoni affari. Alle spalle della Ascot ci sono la Iacobucci HF Aerospace di Ferentino, la Emilia Foods di Modena e la Ekosystem di Desio, per citare le società salite sul podio.

Il pay-off comunica “energy everywhere” e “global energy solution provider” che i generatori della Ascot operano in ogni parte del mondo, anche nei territori più desolati e privi di energia: 59 Paesi, dal Medio Oriente al Canada, all’America Latina, gli Stati Uniti. Oggi in cima alla Ascot c’è Michele Greca, figlio del fondatore: mostra il piglio dell’industriale bergamasco, declinato in più lingue, lasciando negli interlocutori l’impronta terragna. 

Ora mi resta da spiegare per quale ragione ho premesso la categoria del paradosso. Se credete che sia dovuto alla paradossale smentita della vulgata tradizionale – il nord che lavora e il sud che sta a guardare – vi sbagliate. Nasce dal corrivo, provocato da una comunità, gelese, frammentata e confusa, intimidita, povera di idee e di volontà.

Una comunità senza identità, che ha smarrito il senso dell’appartenenza, e custodisce la separatezza fra l’antico paesone del dopoguerra e il quartiere “residenziale” dell’industria, affollato di ex operai e tecnici. Una comunità rappresentata da una generazione di uomini politici decisamente modesti, qualunque sia il ruolo esercitato nella realtà locale, provinciale o regionale. 

La storia della recente campagna elettorale è maestra di vita. Silvio Berlusconi ha trasferito nel Gelese i suoi amici, come fosse un’azienda di proprietà il suo partito, e Gela ha regalato il gradimento ad una rappresentanza che nulla aveva a che fare con la comunità gelese. Se si fossero candidati nei luoghi di residenza i forzisti eletti a Gela, sarebbero stati rispediti a casa.

La generosità del sindaco, ospite ineguagliabile, ha fatto la differenza? Non lo so. Certo è che anche in futuro la vecchia volpe di Arcore potrà fare e dire ciò che vuole, tanto in periferia c’è sempre chi sta in riga e fiata. 

Il paradosso è tutto qui: il sindaco invita il popolo a farsi rappresentare da personaggi politicamente indesiderati nei luoghi di residenza, e poi, a urne aperte e giochi fatti, si rivolge al popolo, chiedendogli di apporre una firma ad un appello per il buon governo. Se alla Ascot avessero adottato questi comportamenti, fidandosi di manager nordisti senza arte né parte, avrebbe chiuso battenti dopo pochi mesi. Invece è una straordinaria realtà italiana, di cui essere orgogliosi. 

Ma la politica a Gela (e non solo) non sposa la logica, non è né un paradosso veridico né un paradosso fallace: è peggio, un ologramma, un bicchiere sempre vuoto, il tappeto volante prestato agli acrofobici, il narciso che non si guarda mai allo specchio, la nuvola di Paperino che ti insegue fino a farti credere che lo fa per amore, il doppio petto blu che cammina senza esserci, l’illusione del coniglio che non esce mai dal cappello, la fanciulla imbambolata che professa l’arte della seduzione, un rompicapo irrisolvibile. Un castigo di Dio. Chissà quali peccati hanno commesso i nostri progenitori, per subire una simile condizione. 

Se chiamassimo il board della Ascot a reggere l’amministrazione locale che cosa accadrebbe? Non so rispondere: si tratterebbe di mettere sulla bilancia l’efficienza aziendale da una parte, e la comunità abituata a fare quello che vuole quando gli pare e piace.

So che un simile esperimento metterebbe fine ad un vecchio rompicapo, se il problema stia dalla parte del manico o meno, se la tendenza allo straniamento, all’individualismo esasperato, al farsi gli affari propri sia invincibile, pesi di più delle buone pratiche degli amministratori con una ricca e fortunata esperienza industriale.

E’ una prova che non potrà essere mai realizzata. Sicché a Gela ci si continuerà ad interrogare sul regime di apartheid dei residenti di Macchitella, oggi inesistente, se l’industria sia gioie e dolori o solo dolori, se il mare, l’aria e la terra inquinati sia ripagata dal portafogli, se la generazione post industriale si senta a casa propria o meno. 

“Il mondo va a velocità diversa”, suggerisce Michele Greca, Ceo della Ascot. “Il successo arriva perché realizziamo prodotti che aiutano il mondo a stare meglio, e a svilupparsi tecnologicamente e dare pari opportunità a tutti di crescere”.

Declinato in politichese, la pillola di saggezza di Michele Greca suonerebbe in questo modo: “metteremo il turbo nel motore, siamo stati privati della materia prima, le risorse.

Ma abbiamo una marcia in più, domani sarà un altro giorno. Affidateci la città e la faremo bellissima… Per intanto firmate questo appello indirizzato a chi comanda, stiamo tutti sulla stessa barca… Abbiamo bisogno del vostro consenso…”. Che è una formula nuova del vecchio “credere, obbedire e combattere”, indirizzato al popolo, ed oggi in linea coi tempi. 

I pacifisti disubbidienti e delusi hanno il diritto di fare orecchio da mercante, gli altri si adeguano, senza farsi domande faticose. E quando incontrano il sindaco si scappellano. Per buona educazione e per consuetudine. 

Ovviamente, al prossimo turno, farò campagna elettorale per Luigi Greca, se riuscirò a persuaderlo. Ma temo che le sue remore siano dure a morire. Come dargli torto?