Com’eravamo/ Quando Gela rischiò di diventare Mariupol

Com’eravamo/ Quando Gela rischiò di diventare Mariupol

Le guerre sono tutte uguali, ripetono stancamente: sangue, crudeltà, odio, lacrime, morti.

Ma non è vero: ogni guerra ha il suo innesco, le sue motivazioni, gli intrighi, i complotti, gli interessi che la precedono, e lascia una striscia di veleni che non è mai uguale. E sul campo, le armi sono sempre più distruttive, più sporche, più costose. Non sono più intelligenti, sono più stupide. Altrimenti non saremmo a questo punto, che si è costretti a far finta di niente, perché il lupo cattivo ha le testate nucleari e potrebbe usarle. L’atomica sarebbe più intelligente?

Ma a guadagnarci nelle guerre, come ricorda spesso Papa Francesco, sono i costruttori di armi, che senza belligeranti dovrebbero chiudere battenti e calare le saracinesche, inventandosi un altro business, magari più fruttuoso.

La grande guerra, l’ultima che in Europa si è combattuta ed ha coinvolto quasi tutte le nazioni del Vecchio Continente, assegnò a Gela un ruolo di primo piano, la città simbolo della offensiva degli Alleati contro il nazifascismo, cioè Italia e Germania. Fu scelta come la sede dello sbarco americano, la prima tappa dell’offensiva. Niente a che vedere oggi con l’aggressione della Russia, contro l’Ucraina, dove le forze in campo – gli aggressori russi e gli accrediti ucraini – sono impari e dispongono di mezzi, risorse, motivazioni ben diverse. 

Guerre uguali? Adottando la strategia russa, Gela, per fare un esempio, avrebbe potuto diventare una città-martire, come Mariupol: sarebbe stata devastata, saccheggiata, stuprata, trasformata in un ammasso di macerie e di cadaveri, se solo una delle mille navi da guerra alla fonda nel golfo di Gela, avrebbe sparato ad alzo zero, contro la città. Una carneficina, ben pochi sarebbero stati i sopravvissuti. Ed è un miracolo che non sia accaduto. 

Gela avrebbe dovuto essere difesa dalla Divisione Livorno, accampata sulla piana, e dalle torrette di cemento, bianche e possenti, piazzate in località strategiche sulle coste siciliane, come le vecchie torri di avvistamento siciliane di epoca medievale. Mussolini le aveva fatto costruire per fermare sul bagnasciuga il nemico, come ebbe a promettere. Se la Divisione Livorno avesse presidiato la città, entrando a Gela, dalle navi al largo sarebbe piovuta una pioggia di bombe, e sarebbe stata la catastrofe. Ma i militari italiani restarono, fortunatamente, lontani da Gela.

Del resto il loro impegno non avrebbe cambiato le sorti dell’eventuale scontro. Rimasero dove erano, anche perché non ebbero alcuna informazione che li mettesse in allarme, come testimoniano l’arrivo di due carri armati, condotti da ignari ufficiali, in Piazza Umberto. Aperte le torrette dei blindati, per permettere di guardarsi attorno, i carristi italiani furono freddati dagli americani sbarcati nella notte, già dentro la città, padroni del territorio. 

L’Ucraina ha avuto il tempo di prepararsi, perché i satelliti hanno fotografato la teoria di carri armati russi pronti ai confini. Sia Putin quanto il ministro degli Esteri Lavrov smentivano la prossima aggressione, con una faccia di bronzo che non ha precedenti. Una sola eccezione, si racconta, ed è documentato, che l’ambasciatore giapponese a Washington si trovasse alla Casa Bianca per rassicurare il presidente Roosvelt sulla volontà del suo Paese di non entrare in guerra contro gli Stati Uniti. Pare che l’ambasciatore fosse ignaro dei piani del suo governo, che aveva già dato ordine di attaccare gli Usa, senza farla precedere da una dichiarazione di guerra, distruggendo due terzi della flotta Usa alla fonda a Pearl Harbour. L’operazione Tora-Tora.

Oggi la strategia di guerra, nella fase di preparazione, non deve affrontare alcun problema di galateo diplomatico, tutt’altro. Putin e il vertice russo hanno smentito fino all’ultimo che l’Armata Rossa, così era chiamata quando al Cremlino comandava Stalin, aveva in animo di fare un solo boccone della “piccola” Ucraina. Non è andata proprio così, ma le intenzioni erano quelle. 

Gela, dunque, si è salvata perché ogni guerra è diversa dall’altra. Il “sentiment” non c’entra nulla: i tedeschi, in guerra, non erano più duri dei russi, come è stato dimostrato dalle stragi provocate dai bombardamenti russi nelle principali città ucraine. Quando i marines sbarcano a Gela, la Divisione Goering si trovava nella Sicilia Orientale, ed aveva cominciato a trasferirsi vicina possibile allo Stretto per passare senza danni nella Penisola e pianificare una forte resistenza all’invasione degli Alleati. 

Russi ed ucraini per lunghi tratti della loro storia sono stati dalla stessa parte, non credo che ciò sia avvenuto perché i due popoli, come dire, erano due cuori ed una capanna, ma per il buon motivo che avevano interessi comuni, un regime ed istituzioni comuni, il proletariato di tutto il mondo doveva sentirsi dalla stessa parte e, la cultura, soprattutto la cultura russa parlava e scriveva ucraino (Gogol, Bulgakov, ecc.).

Mentre il ricordo dello zarismo e del comunismo dispotico hanno cementato divisioni e paure da parte degli ucraini - al punto che all’armata rossa gli ucraini hanno risposto con una volontà indomabile nella difesa della loro patria – le parentele fra emigrati italiani in Usa e popolazione italiana hanno trasformato gli invasori, tecnicamente fu una invasione, dei liberatori, per di più sangue del nostro sangue. Una volta arrivati…a casa, i marines parlano la stessa lingua delle popolazioni locali, ed era perciò contro natura vederli come nemici. Un’altra cosa, insomma. 

Su questa nostra storia sono nate molte leggende, e sono venute fuori anche tante verità. Chi patteggiò perché Gela non diventasse una città-martire come Mariupol. La leggenda narra che la mafia abbia dato tutto il supporto possibile perché ci fosse un’accoglienza gentile e nessuno dovesse farsi male. Un’altra leggenda vuole che a trattare fin nel dettaglio i piani dell’Operazione Husky (così fu chiamato lo sbarco in Sicilia a Gela e nel Siracusano) siano stati Salvatore Aldisio, allora ex deputato popolare, ostile al regime, e il Principe Pignatelli, che aveva anche a Gela una magnifica tenuta in Via Manzoni a Gela. L’attesa (benevola?) della Divisione Livorno sulla piana, nei pressi del Castelluccio, potrebbe avere cambiato la sorte della città. 

Leggende, ma fino a un certo punto. Ho già raccontato altre volte un episodio che mi coinvolge direttamente. La mia famiglia ebbe modo di lasciare Gela, alla volta di Aidone, il centro della Sicilia, e ciò fu possibile perché mio padre, che dirigeva l’albergo Trinacria, ubicato sul Corso Vittorio Emanuele, nei pressi di Piazza Umberto, ebbe sentore che qualcosa stava accadendo. Quindi ne sapeva più lui che quei poveri ufficiali che si sacrificarono, ignari, in Piazza Umberto con il loro blindati. Non aveva informazioni di prima mano e dettagliate, ma aveva sicuramente ricevuto una soffiata, magari “distratta”, e con essa la percezione del pericolo immanente. 

La mia famiglia, “sfollata”, trascorse alcun giorni ad Aidone, mio padre scelse di rimanere a Gela, al suo posto di lavoro, per evitare che l’albergo, il ristorante e il bar, che gestiva non subisse saccheggi. E fece benissimo: il giorno dello sbarco una buona parte dei suoi clienti, commercianti di prodotti agricoli, si presentarono a lui con la divisa di ufficiali dell’esercito americano. E siccome erano stati trattati con i guanti gialli, si sentirono in dovere di ricambiare.

Il clima era questi, insomma. L’albergo Trinacria divenne la sede dello Stato Maggiore americano, con Dwight David Eisenhower, noto anche con il nomignolo di Ike  – 34° Presidente Usa – tra gli altri, e il ristorante divenne la mensa ufficiali. Conservo un documento con il quale gli americani, non so se sia stato Patton in persona a sottoscriverlo, rimborsano la somma di trenta mila lire per il vettovagliamento consumato. 

Questo non mi fa dire che i soldati a stelle e strisce siano stati, sempre e ovunque, degli angioletti. So, per esempio, che dalle parti di Vittoria, Patton abbia dato ordine di non fare prigionieri, e siano stati fucilati soldati italiani, che avevano la colpa di trovarsi dalla parte sbagliata. Anzi, dalla parte giusta, nel momento sbagliato. Giusta, perché italiani, sbagliata perché difendevano la tirannide:  se il fascismo fosse sopravvissuto al conflitto, le cose sarebbero andate in maniera orribilmente diversa per il nostro Paese.

Come potrei affermare che le guerre sono tutte uguali? E come faccio a dare un senso alle atrocità che vedo sul piccolo schermo dalla mattina alla sera? E come posso non sentirmi coinvolto, quando leggo, sui social, giudizi osservazioni opinioni che pongono sullo stesso piano aggressori ed aggrediti? O concessa il concorso di colpa allo Zar, ascolto un però, che mette in croce gli sbagli dell’Occidente, della Nato, degli Usa, della lobby giudaica, eccetera? 

Poi, ci sono quelli senza ritegno, che tifano per gli aggrediti, a patto che non ci sia da pagare il dazio. Lacrime di coccodrillo, insomma. E, stranamente, sono gli stessi, o quasi, che urlano e insultano da sempre nei social, e negano anche l’evidenza, come quel milione e più di morti per il Covid.  C’è poco da stare allegri. In caso di guerra, dovremo guardarci le spalle. 

Non voglio beatificare Mario Draghi, e magari farlo santo subito, ma quell’interrogativo con il quale ha chiesto con un sorriso sulle labbra agli italiani, emozionati dai guai delle povere donne ucraine che si trascinano i bambini in giro per il mondo, se fossero disposti a spegnere i termosifoni per lasciare a pane e acqua il tragico Putin, lo conservo senza modificarlo di una virgola, lo metto in bacheca, ci faccio una cornice dorata, e lo espongo sulla parete alle mie spalle, accanto al Padreterno e alla Madonna. Altro che whatever it takes

Mario è uno che la sa lunga, per questo mi piace.