Cercando di raccogliere informazioni e notizie su Nicolò Di Fede(nella foto), ho condiviso con chi mi ha preceduto nel delinearne la figura, la difficoltà di trovare notizie, quasi che la sua lunghissima esperienza nel mondo della scuola fosse stata inghiottita in un buco nero, e la sua presenza, forte e intensa, ma non urlata, fosse stata cancellata.
Eppure per ben 47 anni – fra banchi, registri e lezioni – è stato l’icona dell’istruzione scolastica a Gela. Ben diciotto di quei 47 anni li trascorse alla testa del Liceo Classico Eschilo, che conobbe grazie a lui, nel periodo della sua presidenza, il tempo più fecondo della sua storia, nonostante contestazioni, conflitti e polemiche, che la attraversarono.
Generazioni di studenti e di docenti hanno dovuto misurarsi con lui, ed era come combattere con un macigno, un monolite, un inflessibile, coriaceo uomo di scuola, votato alla causa, come un sacerdote alla sua chiesa. Il lascito di quella lunga stagione che Nicolino Di Fede – il diminutivo gli veniva concesso anche da coloro che non lo amavano – è la memoria di un uomo di cultura di impareggiabile competenza.
Lo riconoscono anche i suoi più tenaci oppositori, quelli che hanno fatto barricate per resistere alle regole ferree dell’insegnamento e dell’apprendimento, e conservano, ancora oggi, a distanza di tempo (è nato nel 1925, se n’è andato nel 1992), il ricordo di un maestro infaticabile, di un patriarca duro ma giusto, inflessibile ma generoso. Il tempo, come sempre, aiuta a capire e, ove necessario, a modificare giudizi ed opinioni che risentono delle fugaci effimere emozioni contingenti.
Nicolino Di Fede professava la mistica dell’erudizione, aveva dentro il demone della pedagogia: studiava, leggeva di tutto, e lavorava senza sosta, e pretendeva che tutto andasse come doveva, e niente e nessuno dovesse interferire. Era un civil servant, anzitutto, ma anche fine letterato, germanista, musicologo e bibliofilo (i sedici mila libri della biblioteca del Liceo Classico Eschilo di Gela, ne sono una testimonianza incontrovertibile).
Traduceva il greco da testi originali, amava e conosceva a menadito la letteratura tedesca, tanto da far conoscere prima di altri in Italia, poeti come Bertold Brecht, e confrontarsi con i più prestigiosi critici letterari. Coltivò l’interesse per la poesia, in specie per la Ballata (“la voce del popolo della lirica”), per l’epica e per il dramma. Collaborò con riviste letterarie nazionali, pubblicò testi, rimasti memorabili, come “La ballata tedesca, da Gleim a Shiller” e“Scritti e conversazioni di Beethoven” ), studiò con passione Eschilo e la tragedia greca, collaborando con le riviste culturali di maggior pregio.
Il suo magistero scolastico e la innegabile popolarità nel mondo della scuola, non foss’altro che per la longevità, avrebbero dovuto farne un simbolo, tutt’uno con la sua città, ma non è così. Nicolino Di Fede visse una specie di apartheid alla rovescia, si tenne lontano da ciò che non aveva a che fare con la scuola, la cultura, i libri; lontano dai partiti, dalle camarille locali, dai salotti aristocratici (pur essendo la sua, una antica famiglia aristocratica), dalle amicizie assidue.
Un alieno, per certi versi, un solitario per scelta. Gela, per parte sua, non l’ha cercato, come se avesse preso atto della sua presenza e nient’altro. Per certi versi questa distanza può essere spiegata: gli studi e gli interessi di Nicolino Di Fede non trovavano alimento a Gela, la platea culturale era povera, e l’uomo non era facile, per altro verso. Le eccellenze vivono in solitudine la loro parabola umana. E talvolta la separatezza fa nascere diffidenze ed estraneità irrecuperabili.
L’episodio che più lo amareggiò risale al 1977, quando subì una dura contestazione da parte degli studenti della quale si scrisse e si parlò molto, perché la protesta – provocata dal suo diniego di autorizzare una manifestazione in occasione dell’8 Marzo, festa delle donne – degenerò in atti ostili, il più grave dei quali fu l’incendio della biblioteca scolastica del Liceo Eschilo. La vicenda, grave e dolorosa, suscitò indignazione, ma suscitò una reazione utile, servì a trovare il finanziamento, grazie anche all’impegno di Nicolino Di Fede, per ricostruire la biblioteca e dotarla di molti libri, ed oggi è una delle strutture più moderne della scuola siciliana. Per Di Fede fu una Caporetto, dalla quale la scuola seppe risollevarsi e guardare al futuro. Gela viveva giornate terribili a causa della guerra di mafia che imperversava, ma i libri in fiamme erano un pessimo messaggio inviato al Paese. La violenza contagia, è un virus incontenibile.
Ricordare Di Fede come un uomo tutto d’un pezzo, uomo di scuola e letterato, è fargli torto, è come rubargli un pezzo della sua vita. Devo ricorrere a qualche aneddoto per non peccare di omissione. E non potendone trovare fra le carte e i motori di ricerca, devo necessariamente ricorrere alla mia memoria personale, che per fortuna mi assiste con lealtà e costanza. Insegnavo all’Istituto Magistrale Dante Alighieri di Gela, lingue straniere, quando Nicolò Di Fede era preside. La sua fama l’aveva preceduto, ed era una fama di grande rigore, alla quale bisognava pure abituarsi.
Ci si era preparati con coscienza all’impatto. Presto fui invitato in presidenza, ero pronto ad accettare anche le cose più spiacevoli ed affrontare l’incontro con spirito di tolleranza. Il Preside, inaspettatamente, rivelò di avermi conosciuto come studente coscienzioso al Liceo Classico Eschilo e mi propose di accettare l’insegnamento di filosofia, perché erano rimaste alcune ore “vuote”. Era una concomitanza – lingue straniere e filosofia – che non mi sentivo di accettare, per ragioni obiettive di “incompatibilità”. Insomma, non sarebbe stata capita. Di fronte alle mie perplessità, il preside accennò ad un lieve sorriso, mi spiegò che se non avessi accettato, avrebbe dovuto nominare qualcun altro in prima fila nella graduatoria d’istituto, e la scuola non ne avrebbe tratto giovamento.
Non potei che abbassare la testa. Ebbene, trascorsero pochi giorni, e ricevetti la visita del Preside mentre facevo lezione di filosofia. Gorgia da Lentini, per la storia. Sedette nell’ultimo banco ed ascoltò la mia lezione. Dopo avermi dato fiducia per ragioni di forza maggiore, sarebbe stato altrettanto sollecito a togliermela se la scuola lo esigeva. E questo la dice lunga.
Quando lasciò il Magistrale Dante Alighieri per il Liceo Classico Eschilo, fra i primi provvedimenti introdusse il collegamento interfonico fra la presidenza e le aule, affinché le classi fossero dotate di altoparlanti, in modo da far sentire la voce del preside ogni volta che era necessario. E quando ciò avveniva – “Parla il Preside, vi informo che farò un giro di visite nelle classi” – l’attesa era sempre trepidante. Quelle visite, tuttavia, erano silenziose, Nicolino Di Fede voleva solo ascoltare, e non interferire nel lavoro dei docenti. Verso gli studenti mantenne sempre un comportamento rispettoso e, talvolta, paterno (solo in camera caritatis). Come quando, una studentessa in dolce attesa ebbe bisogno di aiuto. In quella occasione fu il rigoroso Preside a darle una mano.
Il bastone e la carota? No, semplicemente un’umanità che stentava a manifestarsi per ragioni caratteriali. C’era, quando serviva, insomma, senza per questo, lasciare nulla d’intentato, ove si dovessero riparare torti e omissioni. Devozione alla “causa”, la scuola, dunque, sempre e comunque. Una scuola fatta d’istruzione e di civile convivenza. Il sacerdozio “laico” di Nicolino Di Fede non avrebbe consentito diversamente.
Nicolino Di Fede, arcigno cultore delle regole, non s’inginocchiò mai sull’altare dei benpensanti. Personalità complessa, quindi. Della quale però è lecito sentirsi orfani. Se esistesse un Pantheon, seppur virtuale, a Gela, Nicolino Di Fede meriterebbe un posto d’onore.