Gela ebbe il suo Martin Lutero. E non lo riconobbe

Gela ebbe il suo Martin Lutero. E non lo riconobbe

L’animo mio, per disdegnoso gusto

credendo col morir fuggir disdegno,

ingiusto fece me contra me giusto”.

Canto XIII, Inferno, Divina Commedia

Sulla sua lapide avrei scritto proprio questa strofa del sommo poeta. Antonio Corsello (nella foto) , Padre Corsello, monaco agostiniano, era permaloso, insofferente, esuberante, amava la vita, e la metteva in gioco, ogni istante della sua vita. L’avrebbe sacrificata sull’altare dei suoi principi. Vi aggiungerei un’altra strofa: “Perché mi scerpi, /non hai tu spirto di pietade alcuno?”. A Virgilio Dante affida la dolorosa missione, strappare dalla terra le radici della vita del suicida…

Fu prete di strada: un ribelle, un guerriero, un santo, un predestinato, dall’eloquio fluviale, la scrittura intinta di sangue, letale come la lama di uno spadaccino. Gela fu il suo campo di battaglia. Dopo il suo arrivo a Gela (da Canicattì) alla fine degli anni cinquanta, elesse la città come il luogo di tutte le ingiustizie, la somma di ogni privilegio e di ogni prepotenza. Ma anche la dimora degli invisibili, di uomini, donne bambini che vivevano di niente.  Litigava, sbatteva i pugni sui tavoli, urlava, inseguiva sogni impossibili, aggredendo i fortini del potere, minacciando le pene dell’inferno, trascinando con sé un piccolo esercito di emarginati, nel quale arruolava i giovani.

No, non fu mai un profeta disarmato. Né un Torquemada, né Gandhi. Un ossimoro vivente. Ogni duello all’ultimo sangue si piegava poi all’amore per gli altri. E tornava mite, così come era stato prima risoluto. Senza traumi. Un uomo così non poteva piacere al potere ed alla servitù di ogni signoria. Le ingiustizie e le pigrizie lo bruciavano dentro, ma placava l’incendio con gesti di conciliazione e di rispetto. 

Chi conosce la sua storia di uomo, monaco, cittadino? Chi ha mai sentito parlare di lui, di ciò che ha fatto, detto, scritto, voluto, conquistato, amato? 

Gela sa guardare indietro, soltanto quando si specchia nella colta Magna Grecia, abiura il passato vicino, quasi se ne avesse vergogna, sebbene sia proprio a questo che deve ciò che è oggi. Per tanti Padre Corsello non è mai esistito, per pochi sopravvissuti al suo tempo era l’agostiniano che abbandonò l’abito talare per sposare la sua amata, lo spretato, l’uomo che tradì la sua vocazione per una parrocchiana. Gela l’ha seppellito due volte, nella nuda terra e nella memoria. Dimenticare Antonio Corsello, costituisce una delle tante esecrabili infamie della città, una ferita per una comunità che rivendica una storia ricca e antica. 

Padre Corsello l’ho conosciuto da vicino grazie al mio lavoro di cronista e alla mia attività politica. Era ammalato di delusioni, sconfitte e costrizioni. L’ho creduto dapprima, a torto, arrogante, incontinente, frustrato a causa di un eloquio straripante. Ringhiava invece che parlare, e mi contagiava la sua insofferenza. In più i suoi occhi mi avvolgevano, mi assediavano, mi facevano perfino sentire in colpa senza sapere perché. Pretendeva di essere ascoltato, che si prestasse attenzione alle sue parole, e non c’era verso di sfuggire a quegli occhi spalancati quando l’ascolto diventava distratto. Mi restava, dopo ogni incontro con lui qualcosa di cui non sono fiero: un senso di frustrazione e di impotenza che presto diventavano irritazione e sfiducia verso il genere umano. Era l’odore di verità che credeva di dovere far sentire a chiunque, a provocarmi l’insofferenza. Ma ero io a non capire, e non lui. 

Se fosse nato al tempo delle Crociate, ne avrebbe certamente realizzata una, a sua immagine e somiglianza, ed una volta in Terra Santa, la tunica del monaco santo ed il bastone nodoso, avrebbe fatto la voce grossa anche davanti alla scimitarra di Saladino. La spada, virtuale o no, non l’avrebbe mai abbandonata perché con i potenti non bastano le parole: per far loro abbassare la testa serve la spada. Ebbi il coraggio di chiedergli, una volta, perché non riuscisse a essere mite e “ragionevole”. Credo che mi abbia risposto con un sorriso di sarcasmo, ma anche di benevolenza. Poi mi raccontò ciò che l’angustiava: la madre, amatissima, l’aveva voluto sacerdote, la famiglia vescovo, e tutti, madre e parenti, pronosticavano per lui una vita da sant’uomo. Compresi così per quale ragione Padre Corsello dovesse combattere contro il suo destino, insieme alle infamie del mondo.

Non fu il Torquemada di Gela, né Gandhi, piuttosto una riedizione paesana di Martin Lutero per via delle sue tesi sugli sbagli e la disarmonia della Chiesa rispetto al popolo dei credenti. Non era santo, per via di quel carattere, ma uomo dabbene sì, innamorato  di quella Chiesa che pure avrebbe voluto rivoltare come un calzino a causa dei peccati che nel corso dei secoli aveva accumulato in abbondanza e per i quali avrebbe dovuto espiare: i roghi, le illiberalità, i privilegi, la ricchezza ostentata, i riti “pagani”, le esazioni ingiuste, la contrarietà verso ogni forma di progresso. Mi aspettavo perciò che un giorno o l’altro affiggesse sul portone della chiesa agostiniana, in Piazza Salandra, le sue tesi dedicate al governo del gregge e alle regole del buon pastore d’anime. Una Chiesa povera per i poveri. 

Quando mi trasferii a Palermo perdetti i contatti con lui. Abbandonata la Chiesa, che non ammetteva deroghe al celibato, trasferì il pulpito sulle pagine del “Corriere di Gela”. I suoi articoli erano frecce acuminate. Gridava alla luna. Grazie ad un piccolo appezzamento di terra vicino a Gela, si mise a coltivare i frutti dell’orto vendendoli agli amici per sbarcare il lunario. Senza lamentarsene né inginocchiarsi davanti ad alcuno. 

L’abbandono della Chiesa lo visse come un dramma. Pare che si sia recato a Piazza Armerina, sede diocesana anche di Gela, per far conoscere al Vescovo la volontà di spogliarsi dell’abito talare, ricevendo dal Vescovo il consiglio di ripensarci. “Ti conviene figliolo?”. L’abbandono del celibato, ove fosse rimasto in privato, non sarebbe stato questione impediente. Il riserbo avrebbe assolto l’esercizio illecito del sesso. Insomma, l’amata non avrebbe dovuto essere necessariamente messa al bando. “Comprendi, figliolo?”. Padre Corsello comprese, eccome, ma fu risoluto: non avrebbe mai tradito in un sol colpo la Chiesa e la donna amata, vivendo nel peccato. 

A distanza di quattro anni dalla sua scomparsa – se ne andò a 90 anni – e grazie alla mia libreria, ho avuto modo di conoscere quanto sia stata faticosa la vita di Antonio Corsello. Ho letto due dei suoi libri, “Una Chiesa ed un ambiente che opprimono” e “Parola di Dio, parola di uomo”. Il primo è un’autobiografia, il secondo un trattato di teologia dedicato alla “prigione dogmatica del magistero cattolico”, all’adorazione biblica degli Evangelici e Pentecostali e al mito dell’ebraismo. 

Nell’autobiografia Corsello racconta la madre, “colpevole” della sua vocazione. Non ne fa una tiranna, la sua volontà non è una prepotenza, ma il modo distorto di regalare il meglio al figlio. Un gesto d’amore. Un segno della predestinazione. “La mia famiglia sentiva che il mio abbandono del seminario sarebbe stato un gesto disonorevole. A quel tempo così stavano le cose…”

Antonio impartiva benedizioni ringhiando contro le ingiustizie del Creato, lanciava moniti, affrancava i poveri dalla solitudine, strigliava i paurosi, i pigri, gli inerti. Se la Chiesa avesse creduto nel Martin Lutero di Gela, tanto per dirne una, gli inchini dei Santi, della Madonna e di Gesù davanti ai boss benefattori durante le processioni non ci sarebbero mai stati. La Provvidenza avrebbe fatto recapitare alle Confraternite inquinate dai boss, un foglio di via permanente, liberando la Chiesa di uno dei suoi peccati capitali.  “Dio nella sua pazienza sopporta”, scrisse nelle sue memorie. Sottintendendo che lui, non aveva la stessa pazienza. 

Gela ebbe il suo Martin Lutero e non lo riconobbe. E come avrebbe potuto? Antonio Corsello non era un teologo, non frequentava le accademie culturali, seminava idee e volontà buone ai ragazzi, dava loro coraggio, prometteva che ci sarebbe stato un tempo buono anche per loro, ma che questo tempo buono avrebbero dovuto meritarselo, perché a Dio va chiesto ciò che è di Dio. Era manager, teologo, parroco, ministro di Dio. E nemico della Chiesa. Indomabile, rumoroso, senza freni. Allorchè scelse di lasciare la tonaca, furono in tanti, nella Curia, a tirare un sospiro di sollievo. “Padre Corsello” non era mai stato uno di loro, e non lo sarebbe mai stato. 

I suoi ragazzi, invece, furono privati di una guida generosa e insostituibile. La Parrocchia agostiniana di Piazza Salandra era un centro sportivo e formativo ricco di talento. Ed è qui che “Martin Lutero” diede il meglio di sé: predicò che non è cosa buona e giusta farsi pagare dalla povera gente i riti funebri (in nigris, in cotta, in mozzetta, in cappa magna con tariffe diverse). Credeva che ci fosse un clero ricco accanto a fedeli poveri, operai lontani dalla Chiesa e Chiesa lontana dagli operai, riti e liturgie spettacolarizzati; processioni usate per le questue; feste locali trasformate in scene teatrali… 

Si non es vocatus, fac ut voceris”. Se non hai la vocazione a farti prete, fattela venire, gli ricordavano i “superiori” in seminario, confida nel suo libro Antonio Corsello. E chiosa: “La chiamata di Dio c’è o non c’è, quell’abito talare lo vissi come una vera e propria prigione…”. 

Io sono e mi sento un pioniere di una rivoluzione epocale che inesorabilmente avverrà in un prossimo futuro. La metà del genere umano vive nelle tenebre del cristianesimo, dell’islamismo e dell’ebraismo… Cattolici, Evangelici, Pentecostali, Testimoni di Geova bestemmiano Dio senza averne coscienza… Ho quasi 85 anni, ma non posso presentarmi al Giusto Giudice dicendo: “Signore, ho parlato di tante cose terrene, però ho trascurato di parlare di Te, della vita celeste, della tua Chiesa che ha urgente bisogno di essere rinnovata profondamente. Haec oportet facere et illa non omittere. Continuerò perciò la mia missione …

E’ il suo testamento. Ho ragione di credere che in Cielo, dove Antonio Corsello si trova, sia in buona compagnia. Magari è in impaziente attesa di San Pietro, per perorare la sua causa, la riedificazione della Chiesa. Con un suggerimento, sottovoce: “Rimanda tuo Figlio sulla terra per favore”.