Publio Virgilio Marone, eccelso poeta epico della latinità, cui si deve il mito della fondazione di Roma, ha sicuramente tanti meriti, che qui non sto ad elencare perché grande e la sua fama, ma è in debito verso la città di Gela, di cui fa un fugace cenno, e per di più ambiguo, nella narrazione delle peripezie del suo eroe, Enea, prima dell’approdo nella città eterna.
Quoque Omerus dormitat, Gela sa perdonare. Meglio sarebbe stato tuttavia se non avesse fatto quel cenno, essendo il controverso…verso virgiliano divenuto oggetto di disputa a dispetto dei venti secoli trascorsi e a testimonianza della resilienza dei campanili che sfidano il tempo e, talvolta i terremoti.
La colpa di Virgilio è veniale, il poeta lascia ai lettori l’incombenza di decidere se sia il fiume, chiamato Gela come la città, a meritare l’aggettivo “immane” sul controverso verso o la città sdraiata sulla collina. “Immanisque Gela, fluvii cognomine dicta”, è l’enigmatico testo che ha fatto disperare quanti, a Gela, hanno cercato con tenacia la prova della “immanità” del suolo natio, a causa proprio di quel galeotto aggettivo, immanis, attribuibile sia alla città quanto al fiume. Non è questione di poco conto per coloro che appresero, grazie alla scoperta delle mura timoleontee, le magnificenze dell’antica civiltà geloa, e avrebbero perciò voluto che il sommo poeta ne facesse ampio e dotto discorso in rime a per porre un suggello indelebile. Anche l’orgoglio vuole la sua parte specie in tempi di magra, quando non c’è proprio niente per cui gonfiare il petto.
Nel 1954, in un clima di euforica attenzione per le “cose antiche”, vede la luce il libello di Saro battaglia dedicato alla disputa fra il fiume e la città. Il titolo, “L’immane Gela” non lascia dubbi sulle intenzioni dell’autore: issare Gela, e non il suo fiume, sul podio più alto, lasciando alle acque, seppur vorticose del fiume, un ruolo dignitoso di “spalla”. Il sottotitolo, posto accanto ad una colonna dorica, icona dei fasti di Gela, invita i lettori a misurarsi con l’enigma: “Immanisque Gela fluvii cognomine dicta”. E’ tollerabile che Gela debba spartire con il fiume la sua fama? In città non c’è alcuno che tifi per il fiume, amatissimo invece dagli uccelli migratori che lo hanno in grande considerazione perché indica la giusta via durante i lunghi trasferimenti. Ma gazze, quaglie, allodole e beccaccini non hanno voce in capitolo, ed hanno altri problemi da affrontare quando attraversano il fiume ed il vicino lago del Biviere, dove i cacciatori provenienti da ogni parte d’Italia una volta l’anno si danno appuntamento da quelle parti, armati di fucili e di passione.
L’aver messo i gelesi, eredi (forse) dei Geloi, nella imbarazzante condizione di dovere difendere la propria identità storica non supera tuttavia il Rubicone della decenza, sia chiaro, la ricerca della verità segue le procedure canoniche di ogni indagine, sebbene affiorino qua e sciovinisti a tutto tondo che curano il mal di pancia con le maldicenze, la più astuta delle quali insinua il sospetto che il sommo poeta non abbia fatto la circumnavigazione dell’isola, e che pertanto la narrazione in versi del periplo della Sicilia fatto da Enea si sia avvalsa di informazioni di seconda mano. La voce maligna sottintende il falso, diciamo così, ideologico. I malpancisti non osano schierare le proprie armi contro Publio Virgilio Marone, si tratterebbe di una tenzone persa in partenza, ma il tentativo di mascariare il sommo poeta lo fanno, eccome, accusandolo di raccontare fatti per sentito dire, “de relato”insomma, modalità questa che, come ognun sa, derubrica la circostanza a mero indizio. Il personaggio creato da Virgilio, Enea, è innocente, sarebbe il suo cantore, semmai, il presunto colpevole.
L’arma usata dai malpancisti è tuttavia spuntata. Il “sentito dire” ha prodotto anche cose buone e non solo nelle aule dei tribunali, anche nelle opere letterarie. Nessuno scandalo, dunque se il sospetto fosse acclarato con prove inconfutabili. La letteratura, non solo italica, vanta parecchi casi di resoconti “de relato”. Del resto ci sono ancora oggi “inviati speciali” di grandi giornali che raccontano in caso di necessità comodamente in pantofole in poltrona davanti al televisore o alla radio, gli eventi che li vorrebbero testimoni oculari. E, a proposito di letterati, basti accennare al grande Emilio Salgari, per fare un solo esempio: raccontò l’India senza averci mai messo piede con tanta oculatezza e competenza da non destare alcun sospetto sulla sua allergia per la perigliosa Malesia. Come non ricordare Sthendal, che adottò il Bel Paese nelle sue opere, frequentandolo quanto basta per farsi un’idea. Fatte queste doverose osservazioni, mi corre l’obbligo di spiegare le ragioni della mia nuova incursione nel passato remoto di Gela.
L’ispirazione arriva dall’opuscolo di cui ho dato conto, ma non solo su quello. All’interno di esso ho trovato alcuni fogli ingialliti, miei appunti dedicati all’opuscolo in questione, che risalgono assai probabilmente al 1980, data nella quale potrei averli vergati di mia mano. Si tratta di note di modesta rilevanza, peraltro piene di strafalcioni, che provano la fascinazione subita sulla “immanità” di Gela. Gli appunti mi restituiscono una testimonianza inoppugnabile si tale condizione d’animo e altro ancora, per il quale ci sarebbe da arrossire anche a trenta anni dal misfatto. Nel tentativo di ripercorrere la strada tracciata dall’autore con la sua diligente investigazione, mi sono servito nientemeno di alcuni brani tratti dalla più celebre opera di Umberto Eco, “Il nome della rosa”, data alle stampe nel 1980, alfine di comparare il cammino verso la verità di Saro Battaglia con quello, compiuto nelle pagine di Eco, dal monaco investigatore Guglielmo di Baskerville.
Se mi chiedeste in base a quale motivazione ho adottato tale accostamento non saprei cosa rispondere. Posso dirvi soltanto che ho sentito una pulsione incontrollata di mettere insieme, in forma didascalica, la assurda comparazione, per la quale, a dire il vero, la grandeur di Gela, non trae alcun beneficio.
Saro Battaglia è l’unico vero protagonista della mia storia. Merita di essere ricordato a prescindere dal suo libello, perché rappresentava una Gela legata indissolubilmente al passato prossimo, il Ventennio, una Gela solenne e riservata, che affidava a valori amati anche dagli antifascisti, la ragion d’essere. Fu un personaggio non secondario nel panorama degli intellettuali gelesi a metà degli anni cinquanta, gentiluomo. La classe dirigente gelese era passata attraverso le forche caudine del Liceo Classico Eschilo di Gela, dove egli svolgeva con dedizione ruolo di segretario. Il Preside era rispettato, perfino amato per il suo carattere empatico e la sua dialettalità, ma il monumento alle glorie antiche della città era lui e solo lui, Saro Battaglia.
Affrontò, nel caso che ci riguarda, con competenza, tenacia e onestà l’enigma di Virgilio, guidò moralmente il drappello, folto, di difensori dell’immanità di Gela, che operava in solitudine per apporre il suggello della grandeur. Fuori dal perimetro cittadino, la questione non scaldava i cuori, anzi. Dalla vicina Licata venivano attacchi alla stessa esistenza della città di Gela, poiché si sosteneva che l’antica Polis fosse nata a Licata. In più ci s’era messo Annibal Caro, insigne traduttore dell’Eneida, a scompigliare la partita. Il suddetto ignorava l’immanis, e quindi l’enigma stesso. Il risultato?: “La pianura passammo de Geloi, di cui Gela è la terra, e Gela il fiume”. Una scelta salomonica, che elimina l’immanità, rendendo superfluo l’aggettivo.
L'itinerario del viaggio di Enea nel testo di Saro Battaglia resta sullo sfondo, fino ad essere abbandonato. L’autore fruga fra le carte e ne ricava un elenco di conferme e smentite che di volta in volta assegnano alla città o al fiume il titolo di “immane”. Dicitur immanis a mole et magnitudine Urbis, commenta A. La Cerda. Per l’insigne storico tedesco Filippo Cluverio (Sicilia antiqua: cum minoribus insulis ei adiacentibus) “immanis” va attribuito alla città, seppure, chiosa, l’attriibuto sia esagerato. Callimaco fa di Gela, una Polis, sinonimo di città, e quindi vasta e celebre. Ma Ovidio privilegia il fiume: “et te vorticibus non adeunde Gela”, mentre Gruber, illustre storico, regala un coup de theatre: il verso originale di Virgilio è “in manibusque Gela fluvii cognomine dicta”. Un’altra storia, dunque. L’immanis riprodotto in vari testi sarebbe una alterazione, forse una contraffazione del verso originale.
Saro Battaglia si chiede perché mai sia sorto l’enigma, dal momento che il fiume non può competere con la città. E’ quasi un torrente. Vuole perciò far luce sui “titoli” del fiume, povero d’acqua. E per trovare una risposta intraprende una strada parallela. E’ possibile che al tempo in cui Virgilio fa viaggiare il suo eroe, sospetta Battaglia, le acque del fiume abbiano spostato i margini fino a allargare la foce di un centinaio di metri, e che questo evento naturale abbia fatto stravedere il circumnavigatore Enea-Virgilio, che lo avrebbero osservato restando al largo del golfo di Gela. La città, alla luce dei recenti scavi e scoperte, conclude Battaglia, era davvero immanis, e il fiume anch’esso immanis, essendo che l’aggettivo immanis precede sia Gela quanto fluvii.
Resta da spiegare la natura degli appunti, conservati per trenta anni all’interno del libretto di Saro Battaglia. Non meriterebbero alcuna menzione per la loro sregolatezza, se non fosse che, denunciano la mia voglia di volare alto, chiamando in causa Adso, il giovane cronista che accompagna nella sua avventura Guglielmo da Baskerville,”. Leggo, perciò inorridito il mio palese tentativo di accostare il bisogno di verità sull’immanisque Gela con il fervore investigativo del monaco. Scopiazzo senza ritegno l’incipit del libro di Eco, che parodizza il Vangelo di Giovanni. “In principio era Gela, e Gela era nella Sicania, scrivo. Poi venne Akragantum. Compito del cronista fedele ai fatti sarebbe ripetere oggi, con salmodiante umiltà, la verità sull’immanità di Gela…Videmus nunc per speculum et in aenigmate. Ancorché reale, palpitante e indimenticabile, la verità si manifesta nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli là dove ci appaiono oscuri”. Decisamente senza capo né coda.
La fascinazione de “Il nome della rosa”, suppongo appena da me letto, mi sedusse al punto da far scorrere in parallelo i segnacoli raccolti da Guglielmo da Baskerville nella scoperta del pluriomicida orribile bibliotecario e la ricerca della prova dell’immanità compiuta da Saro Battaglia. Sospetto che accanto alla fascinazione del capolavoro di Eco ci sia dietro le quinte della volontà il male oscuro dei Geloi, di quei gelesi cioè che si credono figli dell’antica Magna Grecia. Volevo a Gela, immane, accolta con tutti gli onori, almeno nel 1980. Oggi non più.La realtà è povera, ahimé. E Enea non aiuta, tutt’altro. Regala uno sguardo distratto a Gela, ne trae vaghe sensazioni, di prima o seconda mano, non importa. Non resta che inchinarsi e confidare sul presente, pur incerto, per sfuggire ai maligni fantasmi di una intollerabile realtà.