Gela, la città dei sognatori

Gela, la città dei sognatori

C’è stato anche il tempo dei sogni nella storia di Gela, il decennio che va dagli Anni Cinquanta ai Sessanta.

Vincenzo Interlici, padrone di un pezzo di terra coperta da dune in cima alla collina, sognò il teatro greco, scavò e scoprì le mura antiche. Nominato custode delle mura, avrebbe raccontato il prodigio vita natural durante ai visitatori, arricchendo di volta in volta il racconto di aneddoti e fantasiosi dettagli, che incantarono re Olaf di Svezia, archeologo e sognatore. Don Vincenzo Interlici è stato consegnato alla storia nei ritratti con bastone, baffi umbertini e la faccia contenta di chi trasuda orgoglio. 

Che avesse avuto davvero il sogno nessuno ebbe in animo di dubitarlo, prevalse il sogno che offriva al ritrovamento sacralità e mistero. Vincenzo Interlici visse di gloria e di un buon salario, molto di più di quanto le avare dune di Capo Soprano potevano concedergli. Nelle cronache di quegli anni il nome del custode delle mura perciò ricorre più frequentemente di quello di grandi archeologi che, come Paolo Orsi, avevano per decenni cercato ossessivamente il teatro greco sotto le dune di Gela. Non poteva non esserci quel teatro: per quale altro motivo uno dei più grandi poeti tragici dell’umanità, Eschilo, avrebbe altrimenti lasciato la patria per approdare a Gela? Che cosa gli avrebbe suggerito di compiere il viaggio se non la fama di una città dedita all’arte teatrale?

Il ritrovamento delle fortificazioni greche, risalenti a tre secoli prima di Cristo, fece nascere archeologi dilettanti nella città, ispirò storici e letterati dell’antichità, inventò il mestiere di tombarolo, il cercatore di reperti antichi. Sono gli anni delle “truvature”, durante i quali, grazie ai sogni, ormai frequenti, sull’abbrivio di Vincenzo Interlici, molti gelesi furono baciati da improvviso benessere. Gli archeologi studiavano, i tombaroli sognavano e si arricchivano. 

Fra gli archeologi di grande fama, venuti a Gela, c’era un uomo gioviale e di cervello fino, di nazionalità rumena, Dinu Adamasteanu (nella foto con l'archeologo Pietro Orlandini). Ribattezzato don Mastianu, nome più confidenziale e facile da pronunciare, pareva fosse nato e vissuto a Gela: parlava il dialetto, gesticolava, abbracciava la gente, si appoggiava sulle spalle degli amici, raccontava barzellette e si puliva le scarpe con l’erba dei campi. Di sogni, però, non voleva sentirne, preferiva affidarsi alle diavolerie della tecnologia di quel tempo, le aereofotogrammetrie,  fotografie aeree, che grazie al colore delle coltivazioni avvertivano di ciò che si nascondeva sotto terra. 

Gli archeologi dilettanti gelesi arrancavano, senza sogni, come Dinu Adamasteanu, o si facevano aiutare dalle soffiate dei tombaroli, restii a rivelare le sorgenti dei loro ritrovamenti. Uno di loro, Padre A., fra i più popolari, spartiva la vocazione del sacerdozio con la passione per le vestigia antiche e in ogni sermone domenicale della Chiesa Madre – la celebrazione delle 10, che precedeva la messa cantata – amava intrattenere i fedeli sui suoi studi e le ricerche sulla città antica, dopo avere dedicato al Vangelo quanto bastava. Essendo la messa recitata in latino, la predica era seguita dall’assemblea dei fedeli con particolare zelo e il fuoristrada del sacerdote venivano perciò tollerate con fatica. Calzoni corti e l’animo in subbuglio di ogni adolescente, sedevo sui banchi del coro ligneo e servivo di messa allo scopo di farmi perdonare peccati di carne, solo sognati.

La storia antica di Padre A., di domenica in domenica, si prendeva sempre più tempo, lasciando alla parola di Dio lo spazio di uno strapuntino. Non mi facevo molte domande allora, a meno che mai quando non mi riguardavano in prima persona, quindi non mi interrogai in principio sul perché il Padreterno non fosse più in cima ai pensieri di Padre A., che privilegiava l’esplorazione della storia antica ai recessi dell’anima. Qualche domanda me la posi allorché, a conclusione della predica, Padre A. prese l’abitudine di raccomandare ai fedeli il ricordo della sua vocazione archeologica. “Parlate di me, bene o male, purché ne parliate”, diceva, dopo avere deplorato senza malanimo le dicerie di quanti lo incolpavano di trascurare il Vangelo e di dedicarsi alla ricerca del teatro greco.

Il sogno, a lungo coltivato dal sacerdote, era infatti il teatro greco o qualcosa che gli somigliasse; penso che questo assillo avesse a che fare con il sogno premonitore di Vincenzo Interlici che aveva ottenuto dal Padreterno gloria e fama senza merito. Forse viveva la veggenza del contadino incolto come una ingiustizia, turbando il suo rapporto con Dio. Altrimenti come spiegare l’inesorabile impoverimento della liturgia durante il servizio religioso? Appariva innegabile che il dialogo con il Signore si affievolisse nei toni e nei contenuti, il fervore della preghiera si assopisse, e le labbra denunciassero una severità inspiegabile. Il “Domine non sum dignus”, con cui il sacerdote implora solennemente il perdono, levando le mani al cielo, in particolare confessava incontrovertibilmente l’usura della fede,  il malinconico abbandono di Dio. La invocazione del “Dominus…”, recitata a pieni polmoni e sostenuta dallo sguardo rivolto verso l’Altissimo, avrebbe dovuto toccare le corde dello spirito, e invece in Padre A. sembrava indugiare in attesa di un suggerimento, una luce, e stava trasformandosi in un gorgoglio indistinto, mentre le braccia, una volta supplicanti, si stringevano sulle spalle ingobbite. 

Seduto nei vicini banchi del coro percepivo quel “Dominus non sum dignus” come un singhiozzo, un “donsindign” dispiegato con rabbia, anticipando i pugni che Padre A. lasciava battere sul petto affaticato, quasi che il gesto fosse una punizione corporale, dettata dal bisogno di espiazione. Assistevo ad una nemesi o tutto si svolgeva nell’intrigo dei pensieri della mia presuntuosa adolescenza? Quando i pugni sul petto cominciarono ad annunciare i colpi di tosse, fui assalito dal sospetto di stare assistendo a qualcosa di insolito: i colpi di tosse sembravano aprire le cataratte del Cielo piuttosto che una via di fuga al catarro incombente, sintomo della malattia che da lì a poco l’avrebbe mandato all’altro mondo. 

Si infranse così a metà strada, a sessanta anni, il sogno di Padre A., di scoprire il teatro greco nella sua adorata città. Spero che alla vigilia dell’ultimo viaggio abbia riannodato il dialogo con il Padreterno e si sia affidato ad esso. Lo ricordo con tenerezza ancora oggi quel prete con la passione dell’archeologia. Ai visionari, come lui, non servono i sogni, l’intera vita è la rincorsa di un sogno. Lo fu certamente anche quella di Giuseppe Navarra, maestro di violino, uomo mite, socialista galantuomo filantropo, che visse al tempo di Padre A.. “Don Peppineddu”, così lo chiamavano, aspirava ad incontrare Dio sventolando la bandiera rossa del socialismo. Il sogno s’infranse senza nemmeno dargli il tempo di coltivarlo. Eletto assessore comunale a Gela nella prima giunta di centrosinistra della Sicilia, forse d’Italia, con la benedizione riluttante di Salvatore Aldisio e il dissenso della Curia, avrebbe lasciato appena trenta giorni dopo, la vita terrena.

Mentre la sua anima si presentava al cospetto di Pietro, le spoglie terrene ne facevano l’eroe di una ribellione popolare, l’unica della storia di Gela, contro la Curia, colpevole di essersi rifiutata di dare l’estrema unzione a “Don Peppino”, scomunicato come tutti i socialisti ed i comunisti a quel tempo, nonostante il suo fervore religioso e le opere di bene. “E’ una ingiustissima legge umana quella che contende la soglia del Cielo ad anime come queste”, lamentò il capo della rivolta, Vincenzo Giunta, professore di storia e filosofia ed ex dirigente comunista, un senza Dio carismatico e popolare, “ma è da pensare che le anime vi entrino egualmente e trionfalmente a dispetto del tentativo satanico di impedirlo”. 

Successe l’impensabile. La folla che accompagnava le spoglie di Peppino Navarra all’ultima dimora, giunta in Piazza Umberto, si volse verso il tempio ed usò il feretro per abbattere il portone grande della Chiesa Madre costringendo il Vicario Foraneo, Padre Federico, a restituire al defunto, uomo probo, il lasciapassare verso il Paradiso negato dal rifiuto dell’estrema unzione. 

Che il popolo di scomunicati, comunisti e socialisti, avesse preteso la benedizione della Curia per varcare le soglie del Paradiso non divenne motivo di scandalo. E di motivi ce ne sarebbero stati più d’uno, e tutti difficili da ignorare, perché lo diventasse. Accadde solo che alcuni, davvero pochi, sorridessero indulgenti sulla sudditanza del popolo rosso all’acquasantiera ignorando la volontà del popolo sovrano e prestandosi all’infelice ammainabandiera dell’idea, con il suo fardello di principi non negoziabili. 

Il sorriso indulgente sarebbe diventato, tre anni dopo, uno sberleffo maligno al cospetto della folla radunata in preghiera alla Chiesa Madre per assistere alla conversione pubblica del segretario della sezione comunista di Gela, padre di undici figli, ed al suo battesimo pubblico. Restituita l’autorità alla Curia, il padrino, Peppino Alessi, candidato democristiano al Senato, strappava a Satana la pecorella smarritasi nel covo degli scomunicati e conquistava il seggio senatoriale nel collegio Gela-Piazza Armerina, dove i candidati democristiani avevano fino ad allora fallito. Era la mezzanotte di venerdì 26 aprile 1963, quando sull’altare maggiore della Chiesa Madre l’acqua santa giungeva sul capo del comunista pentito e sanciva il trasferimento dal recinto degli scomunicati a quello delle anime pie e il ripristino dell’autorità della Curia. 

La città si metteva in scena e ne usciva sollevata, come al tempo di Eschilo. Le tragedie, commissionate dalla pubblica autorità ai poeti tragici, e quelle rappresentate dal popolo negli anni sessanta, nascevano dal bisogno di catarsi. Recitate o meno, addolcivano per un breve tratto di strada le sofferenze del popolo regalando agli attori, quelli veri dei teatri e gli altri nelle piazze, una timida parvenza di libertà attraverso l’impervio cammino verso la coscienza di sé. 

Riannodiamo la pellicola. Gela aveva vissuto il grande sogno collettivo, il “sogno Texano”, annunciato dalla scoperta del petrolio sulla piana di Gela da parte dell’Agip Mineraria di Enrico Mattei. Sogno “fomentato” dal cinema, la fabbrica dei sogni. Non c’era bisogno di attraversare l’oceano per conoscere l’America, bastava pagare il biglietto per vedere il film, dove le trivelle in primo piano erano protagoniste di storie nate nel teatro di cartone di Hollywood. I cercatori di petrolio ereditavano l’epos dei cercatori d’oro. Quando l’oro nero usciva dal pozzo sullo schermo, il sogno si avverava: e arrivavano ricchezza, benessere, felicità. 

Immaginate come palpitassero di entusiasmo i cuori dei gelesi all’inizio di quell’avventura. Dopo avere vissuto nei campi le frustrazioni del fallimento della riforma agraria, i contadini erano ritornati braccianti nelle coltivazioni di cotone e grano.

C’erano anche i nudisti francesi al Village Magique, ospiti nel boschetto di Bulala, e c’era la spiaggia di sabbia dorata. E le vestigia greche in attesa di turisti ben poca cosa. Le trivelle spazzarono via ogni cosa che non fosse il petrolio. Il mare si ingiallì e i tronchi degli alberi si ischeletrirono. La qualità del greggio non era buona, forse non conveniva nemmeno estrarlo, ma nessuno ci badava. Le trivelle pompavano petrolio e promuovevano da sole il radioso avvenire, con l’aiuto dei fusti di greggio assemblati nella piccola raffineria del porto rifugio. 

Non c’era chi non scommettesse sul futuro. Anche Enrico Mattei, il grande presidente dell’Eni, covava il suo sogno. Buono o cattivo che fosse, il petrolio di Gela permetteva all’Eni di entrare nella ristretta “famiglia” delle multinazionali del petrolio, che monopolizzavano le risorse energetiche del pianeta. Mattei piombò come un falco in Medio Oriente, e offrì accordi ai paesi produttori di petrolio, mettendo di fatto le mani in tasca alle “Sette Sorelle”, le compagnie petrolifere inglesi, francesi ed americane, che concedevano appena un quarto delle risorse guadagnate con l’estrazione ai paesi produttori. L’Eni offriva la metà. 

Quando gli algerini si ribellarono alla dominazione francese, Mattei riprese a sognare, stavolta con il metano. C’era anche quello in Sicilia, niente rispetto a ciò che poteva arrivare dai paesi arabi. Sognava il metanodotto, e il sogno si sarebbe avverato. A Gela. 

E la città? E’ rimasta imprigionata nei suoi sogni. Sembra di vederli i sognatori: il custode dei sogni e amico del Re che scava sul suo terreno, il sacerdote-archeologo smarritosi nella ricerca del teatro greco, il maestro di violino mite e probo innamorato di Gesù che sventola la bandiera rossa e ispira una guerra contro la “sua” Chiesa, il comunista convertito e gli altri, di cui sappiamo poco o niente. Meriterebbero di essere ricordati uno ad uno e di entrare nel Pantheon ideale della città: i sogni hanno regalato dignità alle loro vite. Non è così? Pensate al lungo sonno di oggi, che non può essere nemmeno cancellato perché non sogna più nessuno e non c’è niente da raccontare.