L'incapacità siciliana di sfruttare le potenzialità di importanti spazi di autonomia rispetto allo Stato centrale, di cui l'isola gode grazie allo statuto speciale, non è un'opinione storica, ma un dato storicamente acclarato.
Il caso più recente, perfettamente emblematico in tal senso, è quello della (pseudo) riforma delle ex province regionali. Da quando l'allora presidente della regione, Rosario Crocetta, annunciò (pur non avendo alcun potere istituzionale in merito, giacché la competenza è dell'Ars) in diretta nazionale sulla rai da Giletti (il 3 marzo 2013), che la Sicilia sarebbe stata la prima regione a riformare le province, sono passati oltre sette anni. Il risultato è che da allora – e per alcuni di questi enti intermedi anche prima, ossia da quasi un decennio – le 9 ex province regionali sono di fatto, tutte, commissariate.
I sei liberi consorzi di Agrigento, Caltanissetta, Enna, Ragusa, Siracusa e Trapani sono senza organi di vertice, cioè i presidenti ed i consigli, perché tanto l'organo monocratico, quanto quello collegiale, non sono stati mai più rinnovati. E se è vero che le tre città metropolitane di Palermo, Catania e Messina, hanno i tre sindaci metropolitani insediati, solo perché coincidono con i tre sindaci eletti nelle città capoluogo, i rispettivi tre consigli metropolitani non sono ancora stati eletti ed al loro posto operano altrettanti commissari. Senza consiglio metropolitano, le tre città metropolitane siciliane si ritrovano senza uno statuto e, senza statuto, i sindaci metropolitani sono, come sopra accennato, di fatto con le mani legate.
Le città metropolitane possono recepire fondi comunitari, al pari delle regioni. Quella che potrebbe essere un vantaggio, l’autonomia di istituire tre città metropolitane laddove le altre regioni se ne possono permettere al massimo una, diventa così puro autolesionismo, considerate che le città metropolitane non sono mai entrate di fatto a pieno regime, mentre i liberi consorzi vengono mortificati nel personale e nelle funzioni con deprecabili conseguenze in materia di strade, istituti scolastici, assistenza a disabili, ecc.
Invece i sindaci metropolitani delle regioni di diritto comune sono già operativi come gli organi apicali delle province italiane (presidenti e consigli), quest'ultimi eletti con procedura di secondo grado, secondo quanto stabilito dalla legge di riforma "Del Rio". Una legge applicata in tutte le regioni di diritto comune, ma non ancora in Sicilia, pur con una nuova legislatura a "palazzo dei normanni" (sede dell'Ars) ed il passaggio di consegne da Crocetta a Musumeci a Palazzo d'Orleans (sede della presidenza della regione).
Sulla riforma delle province, dunque, dovevamo essere i primi ed invece - se ed allorquando dovesse l'ars riuscirci - saremo gli ultimi. Tutto ciò, nonostante il "parlamento" siciliano goda di "legislazione esclusiva" in tema di enti locali: vale a dire il massimo dell'autonomia. Tale quasi "assoluta" discrezionalità normativa, anziché affrettare i tempi, li ha notevolmente allungati, corredandoli di eclatanti strafalcioni ed obbrobri legislativi che hanno trasformato "sala d'ercole" (l'aula) in un teatrino del grottesco. Decine le leggi e leggine prodotte, che hanno avuto come unico obiettivo, quello di spostare sempre più avanti la linea del traguardo, prorogando continuamente le scadenze dei commissariamenti.
L'ultimo intervento legislativo è datato 21 maggio scorso, con la legge regionale 11/2020 che nello spostare, causa covid-19, le elezioni amministrative ad una domenica compresa tra il 15 settembre ed il 15 ottobre, ha dovuto spostare le elezioni dei consigli metropolitani, nonché dei consigli e dei presidenti dei liberi consorzi, entro due mesi dall'insediamento degli eletti alle amministrative, prorogando in ogni caso il commissariamento degli enti di area vasta fino al 31 gennaio 2021.
Un fallimento a tutti gli effetti che si tramuta in una vergogna assoluta se aggiungiamo l’incredibile vicenda dei comuni di Gela, Niscemi, Piazza Armerina e Licodia Eubea a cui l'ars, contraddicendo se stessa e le norme varate, in spregio al principio di legalità, si rifiuta per motivi squisitamente di bacini e relativi confini elettorali, di sancire il trasferimento da quello originario al nuovo ente intermedio scelto (dal libero consorzio di Caltanissetta alla città metropolitana di Catania per quanto riguarda Gela e Niscemi, dal libero consorzio di Enna alla città metropolitana di Catania per quanto concerne Enna, dalla città metropolitana di Catania al libero consorzio di Ragusa infine con riferimento a Licodia Eubea).
Questi comuni sono stati costretti da disposizioni legislative emanate dall'ars, a ben due delibere di altrettanti consigli comunali diversi, approvate a maggioranza qualificata in entrambi i casi, intervallati da un referendum confermativo popolare. Un iter nel complesso ben più aggravato rispetto a quello previsto per le modificazioni territoriali e persino per la creazione di nuove province nelle altre regioni di diritto comune. Ed è proprio difficile ammetterlo e scriverlo, davvero difficile, ma purtroppo l'amara constatazione che ne deriva è che se la Sicilia non fosse stata regione a statuto speciale, ma di diritto comune come la Calabria, la Puglia, il Lazio, la Toscana, la Lombardia o qualsiasi altra, Gela quasi sicuramente sarebbe già passata a Catania ed, anzi, molto probabilmente, non avrebbe avuto bisogno di farlo per staccarsi da Caltanissetta, perché sarebbe diventata essa stessa provincia.
Basti pensare che i tentativi di diventare provincia sono stati tre. Nel 1986 con il gruppo capeggiato da Clementino. Nel 1996 con il gruppo capeggiato da Mauro. Nel 2005/06 con il gruppo capeggiato da Franzone, poi diventato Csag, promotore del passaggio a Catania. In tutti e tre i casi, la candidatura di Gela aveva soddisfatto i criteri previsti. Addirittura nel 2005 il comitato coordinato da Franzone presentò la prima legge di iniziativa popolare, con migliaia e migliaia di firme raccolte e debitamente vidimate. Però non se ne fece nulla neanche in quel caso, come nei due precedenti.
Eppure, solo l'anno prima, nel 2004, senza lo sforza di una legge di iniziativa popolare, furono istituite le nuove province di Barletta-Andria-Trani (con addirittura 3 capoluoghi di provincia) in Puglia, Fermo nelle Marche e Monza-Brianza in Lombardia. Mentre nel periodo tra il primo tentativo (Clementino e co.) ed il secondo tentativo (Mauro e co.) di Gela provincia, in particolare nel 1992, furono istituite le nuove province di Biella ed anche Verbano-Cusio-Ossola in Piemonte, di Crotone ed anche Vibo Valentia in Calabria, di Forlì-Cesena ed anche Rimini in Emilia Romagna, di Lecco ed anche Lodi in Lombardia, di Prato in Toscana. In tutti questi casi, rispettate dalle comunità le norme varate dal Parlamento, quest'ultimo non ha sconfessato quelle norme che esso stesso ha prodotto, rispettandole per primo in base a quanto esige il principio di legalità. Un principio di cui non si ha nessun rispetto in Sicilia, da parlamentari inebriati da un’autonomia... lesionista.